SERGIO ATZENI E LA SARDEGNA COME METAFORA
Parlando di Sergio Atzeni (1952-1995) non si può non sottolinearne subito il legame con la Sardegna, un legame però problematico, ambivalente. E ciò ci riconduce, da un punto di vista sociologico, alla condizione di tanti scrittori e intellettuali meridionali, da un lato profondamente legati alla propria terra, dall’altro costretti – una costrizione anche “spontanea”, sorta talvolta di autocostrizione – ad abbandonarla. Ad abbandonarla perché poi sta stretta, perché poi c’è bisogno di superarne i limiti.
Così, possiamo pensare, per stare nel campo della poesia più che in quello proprio di Atzeni della narrativa, ad alcuni autori. Al salernitano Alfonso Gatto che lascia la sua città per Milano, Firenze, girando poi per il resto del nord Italia: e, pur avendo esordito ancora ai tempi napoletani con una piccola sigla editoriale partenopea e per interessamento del corregionale Carlo Muscetta, parlerà del capoluogo lombardo come della città della sua poesia. E però scriverà: “Salerno rima d’eterno”. Il lucano Leonardo Sinisgalli, ingegnere elettrotecnico, emigrerà verso Milano e altri luoghi del Nord per lavorare per importanti gruppi aziendali, dirigendo una rivista finanziata dall’industria, “Civiltà delle macchine” (quando certi industriali erano ancora “umanisti”): ma lasciando costantemente nella sua poesia, nonché in prosa, immagini della terra d’origine. O ancora l’altro lucano Rocco Scotellaro che bruciò la breve vita fra la nativa Tricarico e città come Napoli e Bari: in lui il dissidio sarà, pavesianamente, più fra campagna e città che fra Nord e Sud. Eppure il suo paese, del quale sarà giovane sindaco, gli stava stretto (ciò non parlando poi di Quasimodo, e di tant'altri)
Anche in Atzeni ritroviamo dunque questo contrasto insolubile: da un lato il profondo legame con la sua isola, dall’altro il bisogno di superarne i limiti: e quindi la proiezione verso Torino, soprattutto, e Milano e l’Emilia. Condividendo quindi con Gatto e con Sinisgalli il trasferimento al Nord, con Scotellaro l’impegno politico nonché la breve vita. Il libro di Atzeni centrale in questo senso – quello che ce ne dà un’immagine, per così dire, a gambe divaricate, con un piede in terra sarda e l’altro in continente, è il suo terzo romanzo, l’ultimo pubblicato in vita: Il quinto passo è l’addio (Mondadori, Milano 1995; Edizioni Il Maestrale, Nuoro 1999; Ilisso, Nuoro 2001). Il libro si apre proprio con la partenza del protagonista, alter ego dello scrittore, da Cagliari per andare a fare un concorso come giornalista Rai a Roma, concorso poi non vinto. Ma il libro si muove tutto nella durata del viaggio, con analessi e prolessi, per dirla con tecnico lessico narratologico, o con flashback e flashforward, per dirla con più comprensibile linguaggio cinematografico. Da un lato, dunque, ritorno della memoria a Cagliari con spaccati di vita cittadina fra amori, delusioni, droga, musica e impegno politico; dall’altro, anticipazioni di momenti successivi al viaggio, con riferimenti all’esito negativo del concorso stesso che assume un aspetto di scacco esistenziale oltre che offrire il destro per la denuncia della corruzione. Emblematica è la scelta di incentrare la narrazione – pur appunto nelle sue proiezioni nel passato e nel futuro in uno sfalsamento continuo di piani temporali – nella extraterritorialità del viaggio, nel non-luogo dello spostamento e nella sua sospensione temporale: non si è più nel luogo di partenza – la Sardegna – e non si è ancora in quello d’approdo: il continente: ma contemporaneamente si è sia qui che lì, in questa corda tesa rappresentata dal viaggio stesso. Che è poi la condizione propria di Atzeni, che non riesce a stare più nella sua terra ma, fuori da essa, non potrà scrivere di altro se non di essa. Bellissima è la pagina iniziale che potrebbe essere inserita in una galleria ideale di ritratti dei luoghi abbandonati che cominci con l’Addio ai monti manzoniano. Così scrive dunque Atzeni aprendo il romanzo: “Bocca aperta alle mosche, Ruggero Gunale guarda con occhi umidi e impietriti la città che si allontana: la croce d’oro sulla cupola della cattedrale e attorno a corona digradando i palazzi color catarro dei nobili ispanici decaduti, circondati da bastioni pietrosi invalicabili a piede d’uomo, dove pendono chiome di capperi al vento, di un verde che ride. Guarda i quartieri moderni fuori le mura scendere dai colli al mare oleoso e verde cupo, i bei palazzi e portici dei tempi di Baccaredda (scrittore e sindaco, amato e carogna) e il lascito architettonico di quest’epoca ai futuri: il cubo luttuoso e vitreo che nasconde i vicoli del porto e offende il municipio bianco e danzante cui si è affiancato con protervia da funzionario viceregio d’altri tempi (non è escluso che i futuri decidano di amarlo e cantarlo… o lo smonteranno vetrata per vetrata e lo sposteranno in campagna oltre Paulli e invece delle nere geometrie che spengono la luce e l’allegria vedranno panchine, fontane, palmeti e jaracandas?). Ruggero Gunale guarda la città che si allontana. Saluta torri pisane e campanili. Sillaba a se stesso: ‘La mitezza non incute rispetto né suscita vero compatimento. Anzi: godono a schiacciarti’. Con gli occhi della memoria vola per i vicoli del paese dove ha vissuto gli ultimi tre anni, gli pare di udire il ronzio di un calabrone in un pomeriggio silenzioso e di vedere i muri bianchi di calce ogni tanto incavati in portali neri o marroni, muri senza finestre, per proteggere gli abitanti dall’occhio sbavante dell’individuo e da quello maligno della strega che passano per strada” (Il quinto passo è l’addio, Ilisso, pp. 29-30; non abbiamo qui rispettato gli a-capo e la scansione in paragrafetti tipica della scrittura di Atzeni).
L’aspetto paesaggistico si mescola con quello storico-artistico-antropologico e con la denuncia del presente. Non solo la lingua di Atzeni è mescidata nell’impasto di italiano e sardo, ma anche la sua narrazione è giocata in uno scambio di passato e presente, di modernità e antichità. Se in Il figlio di Bakunìn (Sellerio, Palermo 1991) viene recuperato un passato relativamente recente con la ricostruzione, fatta da quanti lo conobbero, della vita dell’anarchico Tullio Saba, minatore a cavallo della seconda guerra mondiale (e a tentare tale ricostruzione è un giovane capellone con tanto d’orecchino figlio dei tempi stessi dell’autore); nell’Apologo del giudice bandito (Sellerio, Palermo 1986) la storia è ambientata nel 1492, anno simbolo dell’inizio della modernità, in quel secolo XV nel quale si fermava proprio quella lunga corsa attraverso i tempi che è l’ultimo romanzo di Atzeni, pubblicato postumo, Passavamo sulla terra leggeri (Mondadori, Milano 1996; Edizioni Il Maestrale, Nuoro 1999; Ilisso, Nuoro 2000): corsa che inizia in età preistorica dall’arrivo del popolo orientale dei S’ard nell’isola, passa attraverso l’età fenicia, greca, romana, delle invasioni barbariche, medioevale, per fermarsi nel Quattrocento alla dominazione spagnola che per prima si estende davvero su tutta la Sardegna spazzando via l’autorità dei “giudici” che si arroccava ancora nelle zone più interne: e qui si ferma, appunto, alla fine dell’indipendenza dell’originario nucleo sardo, se non per confutare le malevoli e interessate ricostruzioni dell’età “savoiarda” che vorrebbero negare l’identità sarda stessa.
Il primo motore non immobile della narrativa di Atzeni – appunto il riferimento alla Sardegna, alla sua storia e alle sue storie – si ritrova poi in altri lavori, come nelle Fiabe sarde, narrate da Atzeni con Rossana Copez (Zonza Editore, Cagliari 1978; Condaghes, Sassari 1996), e in quel particolare libro che è Raccontar fole (a cura di Paola Mazzarelli, Sellerio, Palermo 1999), nel quale si smontano le immagini della Sardegna, spesso false, costruite da viaggiatori stranieri, o da italiani del continente, fra Sette e Ottocento. Ma non c’è, in Atzeni, alcun pericolo di letteratura regionalistica. Non siamo di fronte a un Renato Fucini redivivo, lo scrittore toscano, vissuto tra Otto e Novecento, accusato di bozzettismo e macchiettismo, accuse riprese da Carlo Cassola (cfr. la sua Introduzione a Renato Fucini, Le veglie di Neri, Bur Rizzoli, Milano 1995). Abbiamo cercato di dire come lo sguardo di Atzeni abbia bisogno di spaziare e certo non condivide di Fucini l’ottica paternalistica del signore nei confronti del popolo. Atzeni è animato da una forte passione politica che lo porta a volere anche una trasformazione della sua terra: una dimensione politica che non lo porta mai a soffocare l’esigenza letteraria. Nella sua opera si trovano la politica, e il politico, ma la sua non si può considerare una letteratura “impegnata”: è semplicemente letteratura. Quindi non letteratura impegnata, non letteratura regionalistica. Semplicemente, ripetiamolo, letteratura nella quale politica e politico hanno grande peso e riferimento territoriale importanza fondamentale.
Che lo specifico letterario sia determinante per comprendere il senso dell’opera di Atzeni d’altra parte ci è testimoniato anche dalla grana “sperimentale” della sua voce. Al di là di possibili riferimenti intenzionali, al lettore è data la possibilità di individuare se non parentele almeno affinità con alcune delle pratiche letterarie più avvedute della seconda metà del secolo scorso. Il quinto passo, con la ricostruzione della propria gioventù e anche dell’impegno politico, fa venire in mente l’analoga ricostruzione che della propria esperienza universitaria e politica nelsecondo dopoguerra a Bologna fa, con scrittura sperimentale, Francesco Leonetti, poeta vicino a Pasolini nell’esperienza di “Officina”, nel romanzo, ora più introvabile di quelli di Atzeni, Conoscenza per errore (Einaudi, Torino 1978), ricco di invenzioni linguistiche fra Gadda e Vittorini (libro questo senz'altro più immediatamente "politico" rispetto alle opere narrative di Atzeni). La ricostruzione poi della vita di Tullio Saba attraverso le persone che lo conobbero non può non farci pensare a Foto di gruppo con signora del 1971 di Heinrich Böll. Per la letteratura a più forte caratura “antropologica” di Atzeni vengono poi fatti i nomi di Amado, Borges, Gárcia Márquez. Senza togliere nulla a tali riferimenti, ci sembra qui di poter aggiungere almeno un nome, seppure meno conosciuto: quello del messicano Juan Rulfo e del suo Pedro Páramo del 1955 (edito in Italia da Einaudi nel 1977), romanzo che sconvolse lo stesso Márquez. Qui Rulfo rende in modo magistrale la compresenza di passato e presente in una dimensione temporale circolare nella quale vita e morte si intrecciano continuamente, in una scrittura e con una struttura che fanno dire a Ernesto Franco, nella sua nota in quarta di copertina: “Pedro Páramo è un’opera al meno. È il lavoro della sottrazione continua. Una narrazione senza le astuzie del romanzo. Un brano di Storia senza date e senza eroi. Un tempo immobile. Una metafisica senza mondo”. Per alcuni aspetti, sembra di sentir parlare di Atzeni. Un certo senso di rarefazione, pur nella densità di ciò che viene narrato, sembra di avvertire anche nella scrittura del narratore sardo.
Quindi, viste le coordinate letterarie che è possibile individuare, sempre meno possiamo parlare di regionalismo. Eppure la Sardegna rimane comunque centrale. Ebbene, se per Leonardo Sciascia si parla di “Sicilia come metafora” – la Sicilia è quella, nella sua concretezza, ma è, insieme, anche altro – possiamo parlare allora, per Atzeni, di “Sardegna come metafora”. La solitudine di Atzeni (il lonely man ricordato da Giuseppe Marci anche nel titolo del suo libro a lui dedicato [G.M., Sergio Atzeni. A lonely man, Cuec, Cagliari 1999]) è anche la nostra solitudine.
Parlando di Sergio Atzeni (1952-1995) non si può non sottolinearne subito il legame con la Sardegna, un legame però problematico, ambivalente. E ciò ci riconduce, da un punto di vista sociologico, alla condizione di tanti scrittori e intellettuali meridionali, da un lato profondamente legati alla propria terra, dall’altro costretti – una costrizione anche “spontanea”, sorta talvolta di autocostrizione – ad abbandonarla. Ad abbandonarla perché poi sta stretta, perché poi c’è bisogno di superarne i limiti.
Così, possiamo pensare, per stare nel campo della poesia più che in quello proprio di Atzeni della narrativa, ad alcuni autori. Al salernitano Alfonso Gatto che lascia la sua città per Milano, Firenze, girando poi per il resto del nord Italia: e, pur avendo esordito ancora ai tempi napoletani con una piccola sigla editoriale partenopea e per interessamento del corregionale Carlo Muscetta, parlerà del capoluogo lombardo come della città della sua poesia. E però scriverà: “Salerno rima d’eterno”. Il lucano Leonardo Sinisgalli, ingegnere elettrotecnico, emigrerà verso Milano e altri luoghi del Nord per lavorare per importanti gruppi aziendali, dirigendo una rivista finanziata dall’industria, “Civiltà delle macchine” (quando certi industriali erano ancora “umanisti”): ma lasciando costantemente nella sua poesia, nonché in prosa, immagini della terra d’origine. O ancora l’altro lucano Rocco Scotellaro che bruciò la breve vita fra la nativa Tricarico e città come Napoli e Bari: in lui il dissidio sarà, pavesianamente, più fra campagna e città che fra Nord e Sud. Eppure il suo paese, del quale sarà giovane sindaco, gli stava stretto (ciò non parlando poi di Quasimodo, e di tant'altri)
Anche in Atzeni ritroviamo dunque questo contrasto insolubile: da un lato il profondo legame con la sua isola, dall’altro il bisogno di superarne i limiti: e quindi la proiezione verso Torino, soprattutto, e Milano e l’Emilia. Condividendo quindi con Gatto e con Sinisgalli il trasferimento al Nord, con Scotellaro l’impegno politico nonché la breve vita. Il libro di Atzeni centrale in questo senso – quello che ce ne dà un’immagine, per così dire, a gambe divaricate, con un piede in terra sarda e l’altro in continente, è il suo terzo romanzo, l’ultimo pubblicato in vita: Il quinto passo è l’addio (Mondadori, Milano 1995; Edizioni Il Maestrale, Nuoro 1999; Ilisso, Nuoro 2001). Il libro si apre proprio con la partenza del protagonista, alter ego dello scrittore, da Cagliari per andare a fare un concorso come giornalista Rai a Roma, concorso poi non vinto. Ma il libro si muove tutto nella durata del viaggio, con analessi e prolessi, per dirla con tecnico lessico narratologico, o con flashback e flashforward, per dirla con più comprensibile linguaggio cinematografico. Da un lato, dunque, ritorno della memoria a Cagliari con spaccati di vita cittadina fra amori, delusioni, droga, musica e impegno politico; dall’altro, anticipazioni di momenti successivi al viaggio, con riferimenti all’esito negativo del concorso stesso che assume un aspetto di scacco esistenziale oltre che offrire il destro per la denuncia della corruzione. Emblematica è la scelta di incentrare la narrazione – pur appunto nelle sue proiezioni nel passato e nel futuro in uno sfalsamento continuo di piani temporali – nella extraterritorialità del viaggio, nel non-luogo dello spostamento e nella sua sospensione temporale: non si è più nel luogo di partenza – la Sardegna – e non si è ancora in quello d’approdo: il continente: ma contemporaneamente si è sia qui che lì, in questa corda tesa rappresentata dal viaggio stesso. Che è poi la condizione propria di Atzeni, che non riesce a stare più nella sua terra ma, fuori da essa, non potrà scrivere di altro se non di essa. Bellissima è la pagina iniziale che potrebbe essere inserita in una galleria ideale di ritratti dei luoghi abbandonati che cominci con l’Addio ai monti manzoniano. Così scrive dunque Atzeni aprendo il romanzo: “Bocca aperta alle mosche, Ruggero Gunale guarda con occhi umidi e impietriti la città che si allontana: la croce d’oro sulla cupola della cattedrale e attorno a corona digradando i palazzi color catarro dei nobili ispanici decaduti, circondati da bastioni pietrosi invalicabili a piede d’uomo, dove pendono chiome di capperi al vento, di un verde che ride. Guarda i quartieri moderni fuori le mura scendere dai colli al mare oleoso e verde cupo, i bei palazzi e portici dei tempi di Baccaredda (scrittore e sindaco, amato e carogna) e il lascito architettonico di quest’epoca ai futuri: il cubo luttuoso e vitreo che nasconde i vicoli del porto e offende il municipio bianco e danzante cui si è affiancato con protervia da funzionario viceregio d’altri tempi (non è escluso che i futuri decidano di amarlo e cantarlo… o lo smonteranno vetrata per vetrata e lo sposteranno in campagna oltre Paulli e invece delle nere geometrie che spengono la luce e l’allegria vedranno panchine, fontane, palmeti e jaracandas?). Ruggero Gunale guarda la città che si allontana. Saluta torri pisane e campanili. Sillaba a se stesso: ‘La mitezza non incute rispetto né suscita vero compatimento. Anzi: godono a schiacciarti’. Con gli occhi della memoria vola per i vicoli del paese dove ha vissuto gli ultimi tre anni, gli pare di udire il ronzio di un calabrone in un pomeriggio silenzioso e di vedere i muri bianchi di calce ogni tanto incavati in portali neri o marroni, muri senza finestre, per proteggere gli abitanti dall’occhio sbavante dell’individuo e da quello maligno della strega che passano per strada” (Il quinto passo è l’addio, Ilisso, pp. 29-30; non abbiamo qui rispettato gli a-capo e la scansione in paragrafetti tipica della scrittura di Atzeni).
L’aspetto paesaggistico si mescola con quello storico-artistico-antropologico e con la denuncia del presente. Non solo la lingua di Atzeni è mescidata nell’impasto di italiano e sardo, ma anche la sua narrazione è giocata in uno scambio di passato e presente, di modernità e antichità. Se in Il figlio di Bakunìn (Sellerio, Palermo 1991) viene recuperato un passato relativamente recente con la ricostruzione, fatta da quanti lo conobbero, della vita dell’anarchico Tullio Saba, minatore a cavallo della seconda guerra mondiale (e a tentare tale ricostruzione è un giovane capellone con tanto d’orecchino figlio dei tempi stessi dell’autore); nell’Apologo del giudice bandito (Sellerio, Palermo 1986) la storia è ambientata nel 1492, anno simbolo dell’inizio della modernità, in quel secolo XV nel quale si fermava proprio quella lunga corsa attraverso i tempi che è l’ultimo romanzo di Atzeni, pubblicato postumo, Passavamo sulla terra leggeri (Mondadori, Milano 1996; Edizioni Il Maestrale, Nuoro 1999; Ilisso, Nuoro 2000): corsa che inizia in età preistorica dall’arrivo del popolo orientale dei S’ard nell’isola, passa attraverso l’età fenicia, greca, romana, delle invasioni barbariche, medioevale, per fermarsi nel Quattrocento alla dominazione spagnola che per prima si estende davvero su tutta la Sardegna spazzando via l’autorità dei “giudici” che si arroccava ancora nelle zone più interne: e qui si ferma, appunto, alla fine dell’indipendenza dell’originario nucleo sardo, se non per confutare le malevoli e interessate ricostruzioni dell’età “savoiarda” che vorrebbero negare l’identità sarda stessa.
Il primo motore non immobile della narrativa di Atzeni – appunto il riferimento alla Sardegna, alla sua storia e alle sue storie – si ritrova poi in altri lavori, come nelle Fiabe sarde, narrate da Atzeni con Rossana Copez (Zonza Editore, Cagliari 1978; Condaghes, Sassari 1996), e in quel particolare libro che è Raccontar fole (a cura di Paola Mazzarelli, Sellerio, Palermo 1999), nel quale si smontano le immagini della Sardegna, spesso false, costruite da viaggiatori stranieri, o da italiani del continente, fra Sette e Ottocento. Ma non c’è, in Atzeni, alcun pericolo di letteratura regionalistica. Non siamo di fronte a un Renato Fucini redivivo, lo scrittore toscano, vissuto tra Otto e Novecento, accusato di bozzettismo e macchiettismo, accuse riprese da Carlo Cassola (cfr. la sua Introduzione a Renato Fucini, Le veglie di Neri, Bur Rizzoli, Milano 1995). Abbiamo cercato di dire come lo sguardo di Atzeni abbia bisogno di spaziare e certo non condivide di Fucini l’ottica paternalistica del signore nei confronti del popolo. Atzeni è animato da una forte passione politica che lo porta a volere anche una trasformazione della sua terra: una dimensione politica che non lo porta mai a soffocare l’esigenza letteraria. Nella sua opera si trovano la politica, e il politico, ma la sua non si può considerare una letteratura “impegnata”: è semplicemente letteratura. Quindi non letteratura impegnata, non letteratura regionalistica. Semplicemente, ripetiamolo, letteratura nella quale politica e politico hanno grande peso e riferimento territoriale importanza fondamentale.
Che lo specifico letterario sia determinante per comprendere il senso dell’opera di Atzeni d’altra parte ci è testimoniato anche dalla grana “sperimentale” della sua voce. Al di là di possibili riferimenti intenzionali, al lettore è data la possibilità di individuare se non parentele almeno affinità con alcune delle pratiche letterarie più avvedute della seconda metà del secolo scorso. Il quinto passo, con la ricostruzione della propria gioventù e anche dell’impegno politico, fa venire in mente l’analoga ricostruzione che della propria esperienza universitaria e politica nelsecondo dopoguerra a Bologna fa, con scrittura sperimentale, Francesco Leonetti, poeta vicino a Pasolini nell’esperienza di “Officina”, nel romanzo, ora più introvabile di quelli di Atzeni, Conoscenza per errore (Einaudi, Torino 1978), ricco di invenzioni linguistiche fra Gadda e Vittorini (libro questo senz'altro più immediatamente "politico" rispetto alle opere narrative di Atzeni). La ricostruzione poi della vita di Tullio Saba attraverso le persone che lo conobbero non può non farci pensare a Foto di gruppo con signora del 1971 di Heinrich Böll. Per la letteratura a più forte caratura “antropologica” di Atzeni vengono poi fatti i nomi di Amado, Borges, Gárcia Márquez. Senza togliere nulla a tali riferimenti, ci sembra qui di poter aggiungere almeno un nome, seppure meno conosciuto: quello del messicano Juan Rulfo e del suo Pedro Páramo del 1955 (edito in Italia da Einaudi nel 1977), romanzo che sconvolse lo stesso Márquez. Qui Rulfo rende in modo magistrale la compresenza di passato e presente in una dimensione temporale circolare nella quale vita e morte si intrecciano continuamente, in una scrittura e con una struttura che fanno dire a Ernesto Franco, nella sua nota in quarta di copertina: “Pedro Páramo è un’opera al meno. È il lavoro della sottrazione continua. Una narrazione senza le astuzie del romanzo. Un brano di Storia senza date e senza eroi. Un tempo immobile. Una metafisica senza mondo”. Per alcuni aspetti, sembra di sentir parlare di Atzeni. Un certo senso di rarefazione, pur nella densità di ciò che viene narrato, sembra di avvertire anche nella scrittura del narratore sardo.
Quindi, viste le coordinate letterarie che è possibile individuare, sempre meno possiamo parlare di regionalismo. Eppure la Sardegna rimane comunque centrale. Ebbene, se per Leonardo Sciascia si parla di “Sicilia come metafora” – la Sicilia è quella, nella sua concretezza, ma è, insieme, anche altro – possiamo parlare allora, per Atzeni, di “Sardegna come metafora”. La solitudine di Atzeni (il lonely man ricordato da Giuseppe Marci anche nel titolo del suo libro a lui dedicato [G.M., Sergio Atzeni. A lonely man, Cuec, Cagliari 1999]) è anche la nostra solitudine.
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Enzo Rega*
Enzo Rega*
Per Sergio Atzeni
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Momenti della presentazione del libro di
Salvatore Iervolino, Un rapsodo sardo: Sergio Atzeni, Editrice Ferraro, Napoli 2008
Teatro Comunale - Palma Campania (Napoli) - 21 maggio 2008 -
*Il testo qui presentato è la trascrizione della relazione tenuta in tale occasione
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Nelle foto: Pasquale Gerardo Santella, Enzo Rega, preside Salvatore Santaniello, Maria Cutolo, Salvatore Iervolino, studentesse del liceo "Rosmini" di Palma Campania
nella foto in alto, copertina del volume di Sergio Atzeni, Scritti giornalistici, 2 voll., Edizioni Il Maestrale, Nuoro: nel catalogo delle Edizioni Il Maestrale sono presenti molti titoli di Atzeni; sue opere sono poi disponibili presso Sellerio di Palermo, Ilisso di Nuoro, Condaghes di Cagliari.
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