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giovedì 30 marzo 2017

SAVIANO (NA) - SAACI/Gallery e Rivista LEVANIA: "Nessuno in mostra"

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SAACI/Gallery e LEVANIA rivista di poesia

presentano


NESSUNO IN MOSTRA


Domenica 2 Aprile 2017 ore 11
Saaci/Gallery via Padre Girolamo Russo 9 Saviano-Napoli
Tel. 338 8666373



Black Napkin Cento Ottantanove Lisa Cutrino
Sergio Fermariello Gianluigi Gargiulo Joyce Kubat
Federico Lombardo Rosaria Matarese Luigi Pagano
Caroline Peyron Camillo Ripaldi Vincenzo Rusciano 
Lucia Schettino Luisa Terminiello 


“Nessuno in mostra” è un’esplorazione, una delle tante possibili, sull’individuo ‘rappresentato’ con i mezzi a disposizione degli artisti. È una mostra di ritratti e autoritratti ‒ naturalmente ben poco interessati alla fisiognomica ‒, questi ultimi da ritenersi, rispetto ai primi, una parte per il tutto: l’artista usa la propria immagine come sineddoche, in qualche modo esponendo attraverso essa anche la sua visione dei propri simili. Ma è anche una mostra che accoglie opere ‒ e quindi riflessioni ‒ più in generale sul tema dell’identità: “Nessuno in mostra” è il titolo con cui ci si vuole riferire al diffuso allarme sollevato dal dibattito largamente praticato sulla questione in tempi recenti. Per una pura ‘coincidenza’, negli stessi giorni in cui si andava definendo il progetto di questa mostra, la redazione di “LEVANIA rivista di poesia” lavorava al nuovo numero: un numero tematico i cui contenuti, pur se attenti prevalentemente all’ambito della scrittura, per una significativa parte saranno gli stessi di “Nessuno in mostra” e consentiranno tra l’altro di osservare dove e come s’incontrino, oggi nelle diverse arti, l’avanzare della rappresentazione e della autorappresentazione e il declino della potenza di significazione del linguaggio una volta definito letterario proprio in virtù di un’eccedenza di connotazione. Ci è sembrato perciò interessante ragionare insieme sull’argomento in costruzione e ora co-firmare – noi di “Saaci” e noi di “Levania” – questo testo di presentazione; come interessante sarà, nel prossimo “Levania”, dare ampiamente conto di questo procedere parallelo.


Lasciando per un momento l’ambito dell’arte, in effetti il corpo, e il volto che ne è parte (e di esso la più identitaria), non è vero che sia ‘presente’ più di prima: si è anzi come allontanato e si lascia sostituire dalla sua immagine, quella sì oltremodo invadente. Il bisogno di incontrare l’altro in persona pare stia raffreddandosi: sempre più ci conosciamo e guardiamo e frequentiamo attraverso ‘riproduzioni’, specialmente fotografiche, e ci fidiamo di come l’altro appare (o meglio: riesce ad apparire) senza indagare più di tanto per afferrare quel che davvero è. Ciascuno di noi è esposto, e molti di noi esercitano il più possibile efficacemente la pratica dell’esporsi e del garantirsi l’ammirato riconoscimento dell’immagine che intendono trasmettere di sé impegnandosi quotidianamente in una sorta di campagna auto-pubblicitaria. In sostanza, si disseminano a larghe mani ritratti ‒ e autoritratti ‒ “celebrativi”, estremamente poveri e ripetitivi: per constatarlo basta farsi un giro in Facebook. Messa a punto la nostra immagine, la facciamo circolare più o meno largamente, decidendo in base al nostro gusto (o ‘strategia comunicativa’) se vogliamo diffonderla smisuratamente o piuttosto con più garbo ed eleganza centellinarla. Molti sono disposti ad apprezzarla o, meglio, a dire che la apprezzano, per riceverne in cambio un analogo trattamento. Quanto più riusciamo a imporre la nostra auto-rappresentazione, tanto più riusciamo a celare quella temuta sostanza che siamo e che non vogliamo rivelare, mettere o far mettere a fuoco. Percentualmente, il ritratto sembra ormai svettare tra i tipi di immagini che ci bombardano; percentualmente, la pratica dell’autoritratto si è guadagnata una presenza nell’ambito del ‘genere’ del ritratto che nessuno fino a poco tempo fa avrebbe potuto prevedere. Il caso Vivian Maier è eclatante non solo perché post mortem si è scoperta un’artista notevole, ma perché il suo tema prediletto era l’autoritratto, divenuto nel frattempo, specialmente attraverso il selfie, fenomeno di massa.

Nessuna immagine è la stessa cosa della cosa cui si riferisce. Nel campo dei messaggi visivi, questo vale sia per quelli non artistici che per quelli artistici, anche se la ‘ricchezza’ dei secondi è, può essere, molto superiore a quella dei primi, come sarebbe bello che a tutti fosse evidente. Quelli artistici ‒ per le arti visive ci sembra di poterlo sostenere ‒ sono tuttora in grado di darci immagini non inutili e scialbamente ‘constatative’: nel caso del ritratto, immagini non allineate a quelle standardizzate così largamente diffuse, interpretazioni e visioni adeguate all’attuale condizione, opere di questi nostri tempi che tenendo conto di tutto quanto detto, e in vari modi dandone testimonianza, hanno senso e potenza. Chi non si appiattisca sull’attuale condizione ci sembra voglia reagirvi perlopiù ‘con emozione’, impegnandosi alla ricerca dell’identità minacciata o denunciando con diversi accenti la minaccia stessa. Si capisce bene, perciò, come mai anche alla ribalta dell’arte tornino prepotentemente il corpo e il volto: la figura umana nella sua più o meno immediatamente percepibile fisicità. All’arte si affida il compito di esprimersi emotivamente mettendo in mostra sul corpo ferite, tormenti, incertezze, solitudini, paure, faticosi tentativi di emergere dallo sfondo o di restituire malinconicamente un inevitabile sbiadirsi; al ritratto si affida il compito di registrare l’identità smarrita e lacerata, una residua presenza. L’uomo è al centro, campeggia in tutta la sua fragilità e si espone secondo modalità tutt’altro che autocelebrative, e la semplicità dei mezzi artistici prevale molto spesso su istanze concettuali e ambizioni sperimentali. Ad essere al centro dell’opera non è più tanto il linguaggio o la riflessione su di esso quanto, piuttosto, l’indagine introspettiva, l’ancorarsi strenuo alla vita, la memoria da cui partire per ricostruirsi un’identità, la richiesta volta all’osservatore di immedesimarsi, la proposizione di una qualche verità semmai piccola, frammentata ed evanescente, ultima o penultima. 

Letteratura, arte e filosofia mostrano come la riflessione sull’io e sull’altro, da Omero a Lacan, si sviluppi senza soluzione di continuità nella cultura occidentale. Nel Saggio sull’intelletto umano di John Locke l’identità personale entra in crisi perché non regge più l’idea che l’anima sia il fondamento delle nostre esperienze e dell’Io. A questo punto la nostra identità esiste solo grazie ai nostri ricordi, alla nostra memoria, alla nostra coscienza. Nel suo Trattato sulla natura umana, David Hume finalmente afferma che l’Io è solo un’idea che non esiste; noi non esistiamo perché ci modifichiamo ogni istante, ogni attimo. L’identità è un’invenzione, finzione solo psicologicamente comprensibile. Noi siamo solo una raccolta di differenti percezioni, che mutano, si trasformano velocemente e senza sosta, ma stupidamente ci crediamo unici, sempre uguali, immodificabili. In realtà noi non siamo nessuno. Gilles Deleuze afferma in Differenza e ripetizione che “tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione”. Nella teoria lacaniana non c'è identità, ma solo differenza: ogni elemento può essere visto solo in rapporto a tutti gli altri: siamo quello che non siamo.

sabato 18 marzo 2017

Napoli: "Acqua piena di Acqua" di Cinzia Della Ciana


Cinzia Della Ciana
Acqua piena di acqua
Effigi

intervengono
l'autrice
prof. Enzo Rega
prof. Andrea Matucci

modera
Carola Flauto

libreria Iocisto via Cimarosa 20 Napoli

mercoledì 8 marzo 2017

8 marzo in poesia a Napoli a Il tempo del vino e delle rose

Il tempo del vino e delle rose
Caffè letterario

piazza Dante 44/45, Napoli
Info 081 014 5940 La poesia è femmina...
Un incontro fatto per stare insieme, tra cultura e musica, le parole e i versi di donne per le donne, una serata leggera e intima per stare insieme con delicatezza, non a caso anche delicatezza è femminile...

Il canto di Gioia Fusco

I versi di:
Rosanna Bazzano
Melania Panico
Chiara Piscitelli
Vanina Zaccaria
Ingresso gratuito

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​Per chi fosse interessato:
Oggi 8 marzo 2017, ore 14.30 
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in omaggio alle donne del suo corso e alle donne in genere,​
 presso la Facoltà L'Orientale sede di piazza Matteotti, palazzo Mutilati e Invalidi di guerra, aula grande al primo piano, il professor Guido Carpi, docente di lingua e letteratura russa, terrà un breve intervento
​ 
 sulla poetessa Anna Achmatova con lettura dei testi nelle traduzioni in napoletano della poetessa Rosanna Bazzano; durante la lettura saranno proiettati i testi originali. 
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lunedì 6 marzo 2017

Il "compleanno" di Pasolini. Ricordi di un lettore

   Il "compleanno" di Pasolini. Ricordi di un lettore




   Il 5 marzo 1922 nasceva Pier Paolo Pasolini. E io non posso dimenticare quel 2 novembre 1975 che poneva fine alla straordinaria esistenza di un poeta - uno di quelli, disse Moravia nella sua orazione al funerale, che nascono una volta in un secolo. Io ho diciassette anni, sono davanti al televisore acceso, inizia il Tg con una foto di Pasolini. E' chiaro che è successo qualcosa. Nel ricordo successivo a lungo collocavo la visione di quel Tg al rientro da scuola. ma non era possibile per due motivi: il 2 novembre era vacanza, e quell'anno cadeva di domenica.
   Conoscevo già Pasolini: ero un pasoliniano della prima ora, della mia prima ora, quando non era scontato esserlo. Un insegnante di lettere, al liceo, una mattina aveva detto che uno come lui sarebbe stato meglio non fosse mai nato; e io avevo avuto, tra i banchi, un istantaneo ed esplicito moto di stizza. Un'altra insegnante, pur amata e apprezzata, aveva commentato la scelta di un collega di introdurre al quarto ginnasio gli Scritti corsari al posto dell'Eneide (che allora si leggeva nella cinquecentesca e indigesta traduzione di Annibal Caro); il libro di un "degenerato". Era stato invece un professore di religione - un giovane sacerdote - ad aprirci altri spiragli su Pasolini, e a dirci che in quegli anni il poeta di Casarsa era il solo a proclamare pubblicamente la propria omosessualità. 
   Conoscevo già Pasolini in vita, anche se non avevo ancora letto nessun suo libro. Com'è che lo conoscevo? Mi capitava di leggere qualche suo articolo su quotidiani e riviste. Ricordo quando Piero Ottone lo volle al "Corriere della sera" all'inizio del 1973 - e allora di anni non ne avevo ancora quindici, e frequentavo il quarto ginnasio al Liceo "Rosmini" di Palma Campania, il liceo dove sono tornato a insegnare e dove con Pasquale Gerardo Santella, nel 2005, dedicammo un progetto scolastico allo scrittore corsaro. Lo seguivo, Pasolini, nelle interviste di Enzo Biagi in televisione, o in una puntata di "Controcampo" nel 1974 nella quale ribadiva il suo concetto di "omologazione". E sentirlo parlare, con quella precisione, era come leggerlo. E in quella trasmissione, o in un'altra, lo sento dire che considera buona letteratura la propria: e questa (auto)affermazione mi colpisce per la consapevolezza senza false ipocrisie che un intellettuale ha del proprio lavoro. 
   E poi avevo visto già alcuni film in televisione. E, probabilmente, le prime volte senza sapere chi fosse Pasolini: i film più popolari come Il vangelo secondo Matteo del 1964, che allora veniva spesso trasmesso a Natale o a Pasqua, e Uccellacci e uccellini del 1966 con Totò, E quindi visto quella prima volta per Totò. Film guardati con tutta la famiglia: e ricordo ancora la sera che costrinsi mio padre a vedere il per lui incomprensibile Medea con la stupenda Maria Callas.  Mentre solo con mia sorella - in quegli anni giovani, una delle persone con cui condividevo le scoperte culturali - devo aver visto, al televisore piccolo - un Brionvega rosso - Accattone. E solo pochi mesi fa sono stato al Pigneto, dove sono state girate alcune scene del film, tra cui quella della morte del protagonista. Che anno era? Pasolini era già stato trucidato oppure no? Come ricordarlo, adesso? Il confronto con i libri - per dire che non si trattava di una mera trasposizione dai due romanzi borgatari dei quali rimaneva piuttosto l'ambientazione - l'ho potuto fare allora, e quindi Pasolini era già morto, perché i libri li ho letti solo in seguito -, o questo confronto è avvenuto soltanto a posteriori: il film visto con Pasolini vivo e i romanzi letti dopo? Non posso dirlo.
   Posso dire solo che il film mi sembrò poesia, anche nel senso che le riprese e il montaggio mi sembrarono scanditi metricamente. Per cui con fastidio sentii l'affermazione fatta molti anni più tardi da Franco Zeffirelli, secondo il quale con il passaggio di Pasolini al cinema la poesia aveva perso un poeta e il cinema non aveva guadagnato un regista. Per me, il poeta rimaneva poeta ed era un regista dallo sguardo particolare, che sapeva isolare in un suo spazio ogni inquadratura.

   I libri. Ecco, i libri sono arrivati dopo, poco dopo quel '75 che stava andando a finire con la morte novembrina di Pasolini. Dal 5 al 16 giugno 1976 ho letto Una vita violenta, in una copia prestatami da Pino Ionta (oggi psichiatra) che credo avesse a sua volta presa in prestito in biblioteca (forse a Sarno, dove facevamo periodiche incursioni), Dal 5 al 26 novembre 1977 ho letto invece Ragazzi di vita. Perché così tanto tempo tra l'uno e l'altro? Letti cronologicamente a ritroso, e pur a distanza, i libri, con il film, furono un'agnizione su un mondo sconosciuto e una finestra su quella realtà sottoproletaria che - ingannandosi - Pasolini considerava potenzialmente rivoluzionaria rispetto a tutti gli altri ceti - compresa la classe operaia - ormai irrimediabilmente imborghesiti. Al di là di questo - ma a questo collegato - fu la scoperta del dialetto come lingua popolare-e-letteraria, a fare il paio, il romanesco, con il siciliano dei Malavoglia di Verga (copia prestatami  nel novembre 1975 - sì, poco dopo la morte di Pasolini, da Giovanni D'Onofrio, allora mio compagno di banco e oggi neurochirurgo). Su quelle letterature, e sul napoletano di Eduardo De Filippo, improvvisai una lezione per alcune alunne di una 5 classe ACI, ovvero assistenti di comunità d'infanzia, a Breno in Valcamonica: doveva essere la primavera del 1988, e lì insegnavo psicologia, non lettere, ma tant'è.
Poi venne la lettura delle poesie (alcune anticipate dalle antologie scolastiche, e poi in volume): Le ceneri di Grasmci, La religione del mio tempo (nei Grandi libri Garzanti, dal riquadro verde), L'usignolo della Chiesa Cattolica (nell'edizione Einaudi). Ormai ai tempi dell'università.



 E in Valcamonica l'acquisto, nel 1987 o 1988, della copia degli Scritti corsari uscita con una rivista, a recuperare articoli letti a suo tempo o dibattiti sentiti aleggiare. Letto, quel libro, nel soggiorno assolato quasi in riva all'Oglio in una lontana stagione. Nel frattempo, con i miei anni, scorrevano gli altri suoi film (stupendo l'episodio de La ricotta), fino al fermo-immagine all'idroscalo di Ostia (quel monumento dimenticato restituitoci da Nanni Moretti con il sottofondo struggente del Concerto di Colonia di Keith Jarrett). 
In quegli anni ancora giovani (metà Novanta) dovevo registrare la passione pasoliniana di una giovanissima fidanzata bergamasca. E in questi anni adulti condividere passione e ideologia con la moglie siciliana, qui, fronte Vesuvio, dove da tempo ho fatto ritorno. Ah: una moglie conosciuta andando a Messina per presentare all'Horcynus Festival, diretto da Franco Jannuzzi a cui debbo la conoscenza della futura consorte, un numero della rivista "Quaderni di Cinemasud" a Pasolini dedicato. Tutto torna... Futura consorte che precedentemente aveva vissuto per quasi dieci anni in Friuli, a Spilimbergo e a Fanna, che dista dieci chilometri da Casarsa della Delizia, il paese della madre di Pasolini, dove Pier Paolo è vissuto diverso tempo imparando e scrivendo il friulano (il friulano che per lui, giovane poeta sotto l'influenza dei simbolisti francesi, è la lingua pura"). Ecco, tutto torna, di nuovo...
      E vorrei ritrovare quella foto di Pasolini al tavolo di lavoro che a lungo mi ha seguito negli spostamenti, qui facendo ritorno, e qui - temporaneamente - scomparendo tra carte. 
   E vorrei ritrovare, tra quelle carte, anche il racconto che scrissi, Trascendente immaginario,  quando un noto settimanale pubblicò le foto del corpo martoriato di Pier Paolo. Scritto al e al quale tengo, come ai lungi articoli per "L'Indice" nel 2012 e nel 2015 ( in questo caso per una ricorrenza della morte). Trascendente perché immaginavo che Pasolini e Gramsci se ne stessero ora insieme, in un qualche aldilà, a parlare di popolo e rivoluzione, mentre in un angolo se ne stava, a guardarli, sant'Agostino. Agostino d'Ippona c'era entrato perché dovevo dare - o avevo appena dato - un esame all'università in cui si portavano le Confessioni. E mi pareva non ci stesse male, anche lui, in quella compagnia, un "usignolo della chiesa cattolica", di quel mondo contadino che Pier Paolo rimpiangeva. Con-e-contro Gramsci. Altro mio punto fermo, Gramsci. Ma è un altro discorso. O forse no.

Tomba di Pasolini e della madre
(Casarsa della Delizia, Friuli)
Centro Studi Casa Colussi in Pasolini
(Casarsa della Delizia, Friuli)

per le foto di Casarsa, un grazie ad 
Antonio Furlanis di Fanna (Pordenone)