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mercoledì 31 agosto 2016

Eventi puntoacapo editrice

TANTI EVENTI IMPORTANTI (www.puntoacapo-editrice.com)

Santa Margherita Ligure

Sabato 3 - Domenica 4 settembre ore 9,00-24
Acqui Terme, Portici (Premio Città di Acqui 2016)
Esposizione con stand librari
Domenica Ore 11,00
Incontro con gli Autori del Fiore della Poesia italiana

Biblioteca Civica, Villa Durazzo
Presentazione del Fiore della Poesia italiana
Introducono i curatori. Intervengono i poeti

Alessandria, Liceo Plana e Museo della Gambarina
XVIII Biennale di Poesia di Alessandria

lunedì 29 agosto 2016

"Terracarne" di Franco Arminio - rec. di E. Rega

Terracarne

Narrativa

(2011)

Franco Arminio
Mondadori


Recensione proposta da LaRecherche.it


ripropongo nel mio blog la mia recensione uscita ne LaRecherche.it il  09/12/2011 

http://www.larecherche.it/testo.asp?Tabella=Recensioni&Id=500



Pubblicato il 09/12/2011 12:00:00
[ Recensione di Enzo Rega ]
Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia

   Da tempo Franco Arminio ha cominciato il suo viaggio nei paesi che stanno scomparendo, per coglierli e eternarli in una sorta di fermo-immagine che li riprende nel momento del trapasso. Questa è diventata una sorta di disciplina, la paesologia, che non ha e non vuole avere carattere scientifico, l’autore stesso infatti afferma che essa si trova tra la poesia e l’etnologia. Non si tratta nemmeno di rimpianto puro e semplice per un mondo che non c’è: infatti non ha nulla a che vedere con quella che in queste pagine viene chiamata invece “paesanologia”. Una disciplina, la paesologia, che forse è arrivata al suo traguardo dopo una serie di volumi, a partire da quel Viaggio nel cratere (Sironi, 2003) con il quale Arminio circoscriveva il suo raggio d’azione (e d’osservazione) ai paesi colpiti dal terremoto del 1980, con una particolare attenzione a quell’Irpinia d’Oriente, incuneata tra Puglia e Basilicata, della quale fa parte Bisaccia, il paese natio dell’autore che ha coniato anche il toponimo per una terra che, sull’altro versante appenninico, risente addirittura d’umori balcanici e che sembra più parte dell’oriente che del mondo occidentale. “Ci sono i paesi, ma ci sono pochi libri che li descrivono”, questo l’incipit del primo libro e il motore primo della Wanderung, di un vagabondaggio tra paesi in un territorio che concentricamente s’allargava sempre più a partire dall’epicentro iniziale, fino a toccare pure qualche località del Nord Italia. Queste le tappe del viaggio, e del suo racconto, che trova summa e compimento nel recente volume mondadoriano: Circo dell’ipocondria (Le Lettere, 2006), Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia(Laterza, 2008), Nevica e ho le prove. Cronache dal paese della cicuta (Laterza, 2009), Oratorio bizantino (Ediesse, 2011). Nel percorso cambia talvolta la focalizzazione (i personaggi più che i luoghi, o certe modalità della scrittura: come nel libro de Le Lettere o nel secondo di Laterza), ma resta questa ostinazione e vocazione che spinge l’autore, onnivoramente, oltre che verso terre contigue, speculari, come la Lucania e la Puglia, dove ritrova l’essenza stessa, ancora più all’osso, dei propri paesaggi, anche verso l’altra Campania, quella dei “paesi giganti” del napoletano.
   Certo, i primi sono più connaturati alla scrittura di Arminio, ne sono in fondo il respiro stesso. Fondamentale, in questo caso, la lettera che Arminio si fa scrivere dal proprio paese, Bisaccia:

    “Io sono il tuo paese, sono la somma delle case, sono ogni tegola, ogni scalino, sono ogni gatto, ogni luce sul comodino, sono i vecchi delle vie fredde e cupe, i giovani delle ville sperdute, sono il grano che comincia a crescere, sono la pala eolica, la quaglia, la rondine quando arriva. Sono il freddo che conosci bene e che prima ti piaceva tanto e ora ti fa paura. Ti vedo uscire incappucciato, non entri mai in un bar, non giochi a carte. Hai paura di sederti, senti che quella è una trappola, ma ti sbagli, e sbagli a stare in casa a farti una tisana, a fare colazione con biscotti e camomilla. Vai al bar, beviti un caffè senza paura, passeggia con chi capita, spreca il tuo tempo, fattelo rubare, non averne alcuna cura. Lo so che sei sempre in ansia, lo so che hai paura di morire. So che scrivi ogni giorno e che adesso non hai problemi a vedere stampati i tuoi libri. Potrei citarti ognuna delle tue poesie. Quando parli di me sembri più ispirato. Quando scrivi dei paesi le tue parole hanno leggerezza e peso. Quando parli d’altro sembra che giri a vuoto. La verità è che io sono tuo fratello, tua sposa, il tuo incubo e la tua speranza. Lo sai, c’è un piacere o un dispiacere dell’abitante verso il suo paese, ma c’è anche un piacere o un dispiacere del paese verso il suo abitante”.
(p. 288)

   La forza dell’ispirazione che si sprigiona parlando di ciò che più lo riguarda, non viene certo meno quando si approda in quella Lucania, dove gli spazi si fanno ancora più vuoti e i silenzi più fondi, e il paesaggio più puro. Ma anche qui natura e cultura vanno insieme, se poi la visita dei paesi è anche un pellegrinaggio alla ricerca delle voci che li hanno cantati. Così, alcune delle pagine più belle riguardano, in Lucania, l’Aliano di Carlo Levi, un paese che resiste nonostante proprio le parole dello scrittore torinese in Cristo si è fermato a Eboli abbiano attirato lì tanti curiosi:

   “Ad Aliano sono arrivati in tanti attraverso le pagine del libro di Carlo Levi. Il paese è ancora lì, con tutti i segni che hanno i paesi adesso. Però qualcosa resiste, a cominciare dal paesaggio circostante. I calanchi sono quelli, non è possibile alcuna lavorazione agricola. E neppure si sono avviate pericolose operazioni di sfruttamento turistico. Bisogna contemplarli da lontano, un mare di pieghe grigie, come un cervello spalmato per terra. E poi se ci entri dentro, senti le voci di questa terra. Ti devi inginocchiare, devi essere una formica, un ciuffo d’erba”.
(p. 50)

   Con Tricarico si apre proprio la sezione lucana:

   “Finalmente sono arrivato a Tricarico, il paese di Scotellaro. In cielo c’è un falco, gli alberi sono tranquilli e lontani. Il mezzogiorno di novembre ha il buio che sale già sui fianchi. La luce che resta è bevuta dalle vacche nei campi, dall’argilla dei calanchi. […] Questa regione vive più nella testa di chi se n’è andato che in quella di chi è rimasto. E perfino arrivandoci dalla desolata Irpinia d’Oriente si sente un ulteriore e per me riposante senso di vuoto, un vuoto che ti fa rivedere la terra, come se negli altri giorni vedessimo solo quello che c’è sopra”.
(p. 19)

   Se questi paesi invisibili permettono di cogliere istantanee nelle quali tutto appare quasi immobile, è il confronto con i paesi giganti che permette invece di svelare appieno il tarlo che corrode pure i primi. Ecco allora il quadro apocalittico:

   “La Napoli-Pompei-Salerno assomiglia a una pista di macchinine da corsa. Arrivando a Torre del Greco mi chiedo come facciano quelli che abitano qui a non impazzire percorrendo questa strada. Di certo questo posto doveva essere assai diverso quando ospitò Leopardi (che qui scrisse La ginestra e Il tramonto della luna).
   È l’ora di punta, l’uscita dalle scuole, la frenesia collettiva delle madri. Ci sono centinaia di ragazzini in giro e altrettanti motorini. Continuo a chiedere indicazioni, dico: “Scusi, per il mare?, mi fanno cenni diversi, mi guardano come se stessi chiedendo della piramide di Cheope. Eppure Torre è un paese di mare, almeno lo era. Sono in macchina da diverso tempo, non vedo altro che strade in discesa e palazzi altissimi, la luce non buca gli spazi, perché spazi vuoti non ce ne sono. Qui è tutto un tessuto unico, una trama fitta di mattonelle, finestre, basolati e cancelli. Vicoli che incrociano altri vicoli e un affannoso e distratto brulichio umano. Tutti serrati, tutti insieme in questa prigione collettiva e autocostruita, tutti a correre da qualche parte per incontrarsi nel punto di partenza”.
(p. 199)

   Come in testo a fronte, e al di là degli stereotipi esistenti, leggiamo dei diversi possibili Sud. E se abbiamo tolto ampi stralci dal libro è per rendere conto anche della grana della voce perché Arminio, come dicevamo, non è un sociologo, ma uno scrittore che declina, nel senso di disfacimento dei paesi che attraversa, il sentimento della propria altrettanto inevitabile morte. Questo è anche e forse soprattutto un libro sulla morte che, occasionalmente ma non per questo meno significativamente, s’incontra con la morte del mondo che l’uomo, nella presunzione pure di superare i suoi limiti, ha costruito. E Arminio crede e non crede nel potere della parola. Se da qualche parte scrive di volere, con le sue parole, prendere un paese e porlo in salvo (p. 231), dall’altro confessa pure l’impotenza: “Faccio parole con la carne e con la terra. Con le parole faccio carne e terra e niente” (p. 145). C’è un’esattezza spaventosa in queste parole, continuazione stenografica dell’osservazione che avvicina la tensione della scrittura di Arminio, e la sua interna esigenza, a quella dell’ecole du regard di un Peter Handke, che scrive: “Quel che ho sempre pensato fra me non è niente: io sono soltanto quel che m’è riuscito di dirvi”. D’altro canto, ci viene un altro paragone lontano territorialmente da quel Sud nel quale Arminio si muove (ma Arminio non è scrittore territoriale, localistico), quello con ilpaesologo Walter Benjamin (quello che ha parlato della natia Berlino e di Mosca, e di Berlino attraverso Mosca: come Arminio attraverso il suo vagabondaggio torna in fondo sempre all’odiata/amata Bisaccia). In Benjamin l’altissima tensione della scrittura investe ogni frase, tanto da togliere il respiro. Anche Arminio, flaubertianamente, costruisce le sue frasi come se ciascuna fosse l’ultima, anzi l’unica. Ma, nello stesso tempo, ci fa il dono di una leggibilità assoluta.

mercoledì 17 agosto 2016

"Il sorriso di Don Giovanni" di Ermanno Rea - rec. di E. Rega


Libri con le ali

recensione di Enzo Rega
Dal numero di luglio-agosto 2014 de "L'Indice dei libri del mese"

Ermanno Rea
IL SORRISO DI DON GIOVANNI
pp. 233, € 18
Feltrinelli, Milano 2014

“Sono una lettrice accanita, obbligata – credo dalla sua dannata immaginazione (nonché sentimento) – a vivere accanto ai libri, dentro ai libri, per i libri, leggendoli, ma non soltanto. Vivendoli. Perché, caro Maestro, quando un libro mi prende non passa su di me senza lasciare tracce profonde, senza cambiarmi un poco. Questo, per quanto mi riguarda, è un punto fermo: i grandi libri ci mutano, ci trasformano, e non soltanto individualmente ma come collettività”. Il passo è quasi alla metà esatta del nuovo libro di Ermanno Rea. Il “maestro” a cui Adele, la protagonista, si rivolge, è Italo Calvino. Il libro di Calvino che l’ha folgorata è, non a caso, Se una notte d’inverno un viaggiatore, il romanzo caleidoscopico, uscito nel 1979, alla fine di quegli anni settanta che Adele attraversa insieme al suo Fausto, il comunista amato, lasciato, ritrovato. Non a caso si tratta di quel romanzo di Calvino composto di tanti romanzi interrotti per un errore di impaginazione della casa editrice. In questo passo c’è infatti il ritratto di Adele, il senso di questo libro di Rea, ma (a stare all’affermazione “Adele sono io” nella Nota finale) anche una raffigurazione dell’autore.
C’è il Rea scrittore “civile” nell’affermazione finale nella citazione appena riportata, quella che proclama fiducia nella trasformazione della “collettività” a opera dei libri. Rea ci ha consegnato infatti quella stupenda trilogia sul declino di Napoli, e sul suo possibile riscatto, che comprende Mistero napoletano(1995), La dismissione (1998) e Napoli ferrovia (2007), con l’appendice di La comunista (2012), che riprende la protagonista di Mistero napoletano, la comunista eretica Francesca Spada. E il secondo racconto di La comunista (il libro contiene infatti due “storie napoletane” autonome) vede un immigrato polacco intento a costruire, sotto il Vesuvio, una grande biblioteca per il suo committente, un vecchio grecista napoletano.Ed ecco che questo Sorriso di don Giovani (con il quale Rea, dopo il saggio La fabbrica dell’obbedienza, continua a uscire con il suo nuovo editore, Feltrinelli, che ha intrapreso la ripubblicazione delle sue opere, a partire da La dismissione) fa dei libri il centro della narrazione, attraverso una donna che parla in prima persona: e sempre Rea, nella trilogia aveva “incarnato” Napoli stessa volta per volta in un personaggio femminile, anche se qui siamo in un paesino dell’interno, una “Macondo” irpina, da cui muovere poi verso il capoluogo campano, seguendo la formazione umana, politica e letteraria di Adele. E se i tomi della trilogia erano romanzi-saggio, questo è un romanzo-romanzo, che però si nutre dei tanti libri che i protagonisti leggono e delle discussioni che i libri suscitano, rivivendo nello sguardo dei lettori.
In exergo, infatti, Rea afferma perentoriamente, con Marc-Alain Ouaknin, “Leggere è creare!”, e cita il Sartre delle riflessioni sulla letteratura: “Lo scrittore si appella alla libertà del lettore perché collabori alla produzione della sua opera”. E così, nelle primissime righe del romanzo, Adele confessa la sua precoce passione di lettrice che vuole entrare nei libri che legge: “Ero un fiore ancora in boccio, ma già smaniosa di essere un’altra, anzi svariate altre, a seconda dei casi. Creatura di carta, sfogliavo pagine in continuazione pretendendo di entrarci dentro per farmi personaggio a mia volta, entità immaginaria come i miei eroi: ehi, adesso dovete fare i conti con me!”. La lettura è amplificazione della propria vita, ma anche strumento di comprensione del mondo, in quella tipica dimensione in cui la letteratura si “stira” tra il “qui” della realtà esistente e il “là” di un altrove possibile: e qui si dispiega, nell’utopia letteraria, la funzione “redentrice” della scrittura stessa. Vediamo subito allora la piccola Adele arrampicarsi sulle scale della bianca libreria di don Arturo, prospettando per sé un futuro da “libraio” (declinato al maschile), e immaginando di precipitare da quella scala insieme “a una pioggia di romanzi con le ali aperte come uccelli. L’ho sognato almeno due volte: ero io stessa un libro che cadeva con le ali aperte”.
Un romanzo fondamentale nella formazione di Adele, e del suo Fausto, con il quale ne discute, è l’immortale Idiota di Dostoevskij, che instilla un cruciale quesito: “Essere completamente buoni era una possibilità reale dell’esistenza oppure no?”; domanda di portata etica che appunto registra, e condensa, la tensione tra reale e altrove, domanda che diventa ossessione che spinge la protagonista a interrogare direttamente il libro, in un’esegesi vissuta che man mano interessa tante altre opere. Fino alla fine, quando Adele, ormai anziana, si ritira a vivere in una casa-biblioteca, i cui libri vengono dati in prestito. Una casa animata da tante figure di carta, da tanti personaggi “reali”: “Caro Leopold, caro Nathan, caro Tristram, caro capitano Achab, soprattutto carissimo don Alonso, amici tutti, non potete immaginare come sia contenta di avervi stasera in casa mia…”. E che l’ultimo a essere nominato sia Don Chisciotte non è casuale.

giovedì 11 agosto 2016

"La comunista" di Ermanno Rea - rec. di Enzo Rega

ripropongo la mia recensione a 

La comunista  di Ermanno Rea

uscita in "America Oggi" il 19 agosto 2012

segui il link
http://www.lavocedinewyork.com/arts/libri/2012/08/19/letteratura-francesca-la-comunista-napoletana/


A quanti s’interrogavano sulla natura dei suoi rapporti con Francesca Spada, l’intellettuale napoletana, giornalista dell’“Unità” e compagna di Renzo Lapiccirella – un militante scomodo del PCI napoletano -, morta suicida, Ermanno Rea dà finalmente una risposta nel suo recente «La comunista» (Giunti 2012, pp. 139, 12): sì, lui ne era innamorato, aveva tentato un giorno a Ischia addirittura di baciarla rimediando un ceffone, ma chiarisce: “La nostra amicizia era di granito: e quando dico amicizia dico proprio amicizia, non un’altra cosa. L’altra cosa era soltanto un’ombra che, mai esplicitamente evocata, a tratti e di soppiatto poteva rendere lei più aggressiva e me più schivo e cupo.
Nulla di più” (la frase è di tale importanza che viene riportata in quarta di copertina). Così sono serviti i denigratori di un precedente libro dello stesso Rea, «Mistero napoletano» (Einaudi 1995): allora lo scrittore napoletano tentava di ricostruire il “mistero” che aveva portato Francesca al suicidio, ma nel ritratto della donna racchiudeva il senso della storia della sua città, da un lato portata al declino dal patto scellerato tra militari americani che insediavano a Napoli una loro roccaforte e il potente armatore Achille Lauro, fascista riciclato, che accettava di spostare il fulcro della sua attività da Napoli a Genova per consegnare il porto della propria città alla potenza d’oltreatlantico. Da lì Rea – dall’arrivo degli americani nella Seconda Guerra Mondiale – data l’inizio del declino della città partenopea, dall’altro compromessa nel suo riscatto anche dalla miopia dei dirigenti comunisti napoletani e nazionali del tempo: e proprio questi cercarono di ricondurre la portata del libro nel territorio più rassicurante della passione sentimentale, dell’amore per Francesca, e nulla più…
Ma tanto «Mistero napoletano» è dominato da uno sguardo generale, seppure partendo dagli occhi di una donna, raccontata da coloro che la conobbero, tanto «La comunista» è intimo e personale. Ora Rea immagina che Francesca gli riappaia come fantasma per le strade di Napoli a distanza di cinquant’anni e, nel colloquio che avviene, la donna è informata di ciò che era seguito alla sua morte, nonché alla pubblicazione del libro che di lei parlava. Ermanno ne aveva pianto la scomparsa come solo i bambini sanno fare, ma: “Molti invece non la piansero affatto, giudicandola disumana, egoista, perfino una poco di buono. Troppe ‘comari’ al mondo, allora come adesso. Troppi pregiudizi e norme che non ammettono trasgressioni. Figuriamoci: Francesca era una disubbidiente nata, un’irregolare per scelta ideologica prima ancora che per indole” (p. 10).
Invisa quindi fuori e dentro il Partito. Nella sua flânerie partenopea, Francesca ritrova una città peggiorata, e così confessa a Ermanno, che tramite lo sguardo di lei rinnova le proprie di accuse : “Girando per le strade della città non ho ascoltato che lamenti, quanto sconforto dappertutto! Ai miei tempi le cose non stavano così. Non che Napoli non avesse le sue piaghe, ma negli occhi della gente c’era la luce della speranza. Ora, non ho incrociato che occhi spenti, uomini e donne prigionieri del buio. Un popolo di ciechi. Se non mi fossi uccisa, che ne sarebbe stato di me?” (p. 12). Tanto che la donna si chiede ancora se non abbia sbagliato a tornare. E il riferimento è a quegli anni di lavoro nella redazione napoletana del quotidiano comunista, quando si sperava di cambiare se non il mondo, almeno Napoli.
Ma come in tutta la precedente trilogia («Mistero napoletano», «La dismissione», «Napoli Ferrovia», nel 2009 raccolta nel volume BUR «Rosso Napoli»), si presenta la parola “resurrezione”, è Francesca a farlo notare a Ermanno: raggiunto il punto culminante della disfatta, non si può fare altro che pensare a un nuovo inizio. Qual è il messaggio della ricomparsa di Francesca? È sempre lei a svelarlo al vecchio amico: “Ci può essere qualcosa di meglio che sognare e lottare per l’impossibile” (p. 65).
Nonostante il racconto si concluda con il pianto, il buio e il silenzio, le parole di Francesca hanno risvegliato il fresco profumo dell’utopia e il “coraggio dell’impossibile”. Nell’altro bel racconto compreso nel volume, “L’occhio del Vesuvio”, Rea delinea un intenso rapporto, nella leopardiana campagna nei pressi di Torre del Greco, tra il grecista in pensione Lucio Ammenda, sommerso tra i libri che non riesce a sistemare, e un immigrato polacco che s’improvviserà, grazie alla propria intelligenza, falegname di qualità tanto da costruire una enorme e meravigliosa libreria. Come dire: sarà il nuovo sangue affluito da fuori a ridare linfa alla stagnante napoletanità? Era questo, no?, il messaggio di «Napoli Ferrovia» nel quale già lo sguardo diventava planetario ritraendo una Napoli fecondamente multiculturale.


mercoledì 10 agosto 2016

"Pigmenti" di Antonietta Gnerre - rec. di E. Rega

Raffaele Della Fera - particolare

ripropongo nel mio blog la recensione di
 "Pigmenti" di Antonietta Gnerre 
pubblicata su saperincampania

segui il link
http://archivio.saperincampania.it/giornale-Tra-terra-e-cielo-la-poesia-di-Antonietta-Gnerre

e riproposta su farapoesia
http://farapoesia.blogspot.it/2013/02/tra-terra-e-cielo-la-poesia-di.html

***

Fiori di vetro. Restauri di solitudine è il titolo di una precedente raccolta di Antonietta Gnerre (Fara Editore, Sant’Arcangelo di Romagna, Rimini 2007), ma è un’utile cifra per introdurre alla sua più recente plaquette intitolata Pigmenti (Edizioni L’Arca Felice, Salerno 2010).
Il titolo precedente dà l’idea infatti di una “fragilità” che non è debolezza ma “delicatezza” (quello che alcuni dizionari danno come infatti primo sinonimo), che è la caratteristica e del contenuto e della scrittura di questa poesia. Alessandro Ramberti, introducendo quella precedente raccolta, parlava infatti di haiku. E si può aggiungere chehaiku erano “nascosti” anche in testi lunghi, nel senso che se ne potevano estrarre lacerti che avessero queste caratteristiche, e il testo stesso nell’insieme appariva come una collana di haiku.
 
Aspetti che senza dubbio ritroviamo anche in Pigmenti, ma con un irrobustimento nel dettato pur nella delicatezza (delicatezza ribadita anche nel comunicato che accompagna questa plaquette, comunicato anonimo ma attribuibile a Mario Fresa che dirige la collana de L’Arca Felice), una densità ulteriore che si fa icasticità. Citiamo, per ridare anche questo soffio delicato d’oriente: “la tua lacrima / avvolge gli ikebana / che dormono”.
  
Anche il sottotitolo del volume precedente può essere utile come sottotraccia per la lettura di questi nuovi versi: restauri di solitudine, ricordiamo. Cioè un’atmosfera intimista e di auto-interrogazione. Leggiamo infatti in Pigmenti: “Nel camminare mi guardo / dentro”. Ma il viaggio della vita, questo cammino pur personale, non è autoreferenziale. Il “restauro di solitudine” può anche intendersi, ambiguamente, come “restauro dalla solitudine” e quindi come apertura, ri-apertura all’altro: “Dall’aria di un sogno / viaggio in treno / sulla ferrovia / delle tue mani”. Il riferimento al sogno dà poi anche l’idea del carattere talvolta visionario di questa poesia. Un carattere visionario che non è astrazione (nel senso anche concettuale, filosofico) da questo mondo: “Eppure, sento, che non hanno riparo / queste mie pene. Nascono dalla / tua materia, per restare sul rigo / di un grande motore umano. / La mia carne”.
  
Un aspetto umano, troppo umano che si completa poi nell’afflato con la natura. Già la Poesia viene qui definita come “Un pensiero / che unisce / la mia voce / sul colore di una / foglia”, in una sintetica dichiarazione di poetica.
  
Natura intesa cosmicamente come universo, in una mistica unione con Dio (“c’era Dio nella goccia che accarezzava il tuo viso”): laddove il Dio del monoteismo del quale Antonietta si è occupata anche come studiosa, oltre che come credente, non è in contrasto con una qualche forma di panteismo, se poi anche per il cristianesimo Dio è in ogni luogo. Ma natura anche come luogo e luoghi geograficamente determinati, laddove però micro e macrocosmo pure si fondono: “Irpinia, mia sventura e mia sopravvivenza / terra del mio sangue, verde e cosmica / infinita fino a schiacciarmi”; così come nella raccolta precedente una poesia era dedicata a Prata, cioè a Prata di Principato Ultra, per l’appunto in Irpinia: “Prata ti porto nel cuore nel grano delle danze / future col diadema della mia alba percorro / i perimetri le cupole dei tuoi rami con l’illusione / d’amarti solo io”.
  
La terra è dunque la madre-terra, e alla madre è dedicata l’ultima poesia qui raccolta, un recupero memoriale del Natale da sottrarre alle “cianfrusaglie dell’apparenza”, e in Fiori di vetro, a suggellare più in profondità, e più a ritroso nei tempi, il legame con questa terra, compare anche la nonna, la Grande Madre come si direbbe in altre lingue, alla quale dice: “Oggi sei la sentinella che ci accompagna / nella terra della fede con i piedi fasciati / dalle tue preghiere ascoltiamo i messaggi dell’amore”. Le poesie dedicate più direttamente alla propria terra, alla natura nella sua concretezza, e alle madri da cui ventri si discende, si dilatano oltre le forme dell’haiku, espandendosi in versi più lunghi e numerosi, come se lo spirito volesse poi farsi carne e in essa, attraverso essa, riconoscersi. Che è il mistero cristiano nel quale profondamente Antonietta crede senza chiusure confessionali ma nella tensione di un discorso interreligioso e interculturale. Che significa poi sentirsi tutti rami di un unico albero, immagine fondamentale in questa poesia: e la riproduzione di un olio di Raffaele Della Fera, raffigurante un nodoso albero che sorge da un mosso mare d’erbe (che ha qualcosa – pur spoglio e diverso per realizzazione, del Pino nei pressi di Aix di Cezanne), accompagna questa plaquette coloristicamente, e essenzialmente, intitolata Pigmenti.
  

Ma qui mi taccio per non incrinare, con le parole spurie della critica, il nitore cristallino di questi versi di vetro.

domenica 7 agosto 2016