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Affinché la tecnica sia davvero mezzo e non fine

lunedì 30 giugno 2008

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, per caso a Palermo, un giorno...

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C'era una volta... la casa di Tomasi di Lampedusa

La sorpresa, dopo aver visitato, nell'aprile 2008, l'Orto Botanico a Palermo, e dopo essere stati alla Focacceria San Francesco (non fa niente se ora è soprattutto per turisti), di scoprire una delle case di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Veramente, prima della Focacceria, avevamo trovato un Lighea Ristorante Wine Bar, che ci aveva messo sulle tracce. Lì vicino dunque avevamo scoperto il Parco letterario dedicato all'autore del racconto omonimo, Lighea, appunto, nonché del celeberrino Gattopardo. La sede del Parco è poco lontana dall'ultima casa abitata dal principe scrittore (o principe degli scrittori). Così, dopo aver mangiato, ci siamo spostati in un altro punto della città, a ridosso di via Cavour. Qui abbiamo trovato il vicolo Lampedusa, dove rimangono i resti - cioè, le mura perimetrali - della casa natale dello scrittore. Seriamente danneggiata dai bombardamenti del secondo conflitto mondiale, fu poi, per pericoli di crolli, quasi interamente distrutta. Ed ecco cosa ne rimane. E pensare che da quel vicolo, dal portone in quel vicolo, una volta usciva una carrozza...C'era una volta
Nelle foto: un ritratto dello scrittore e la prima pagina del Gattopardo. Poi una locandina del Parco Letterario "Giuseppe Tomasi di Lampedusa". Quindi, la casa di via Lampedusa, e immagini della sede del Parco (foto originali scattate da Enzo Rega, quella in cui compare egli medesimo è stata scattata da Vita Brugnone. Le prime due immagini che seguono sono riprodotte da cartoline stampate a cura del Parco):






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giovedì 19 giugno 2008

"Agorà": numero speciale per Umberto Nobile

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Agorà
del Vallo di Lauro
11/2008

Pubblicato (a cura della Prolauro) un numero speciale della Rivista Agorà del Vallo di Lauro, nella bassa Irpinia,
dedicato a Umberto Nobile,
il trasvolatore del Polo Nord.
La rivista, oltre che sulla celeberrima impresa,
immortalata anche nel film La tenda rossa,
si sofferma sul'attività di scienziato di Nobile, sui suoi libri
(con un articolo di Domenico Starnone),
nonchè sulla ancor meno conosciuta attività politica:
fu eletto come indipendente nelle liste del Partito Comunista
all'Assemblea Costituente.


pagine di Agorà: la casa Natale di Umberto Nobile a Lauro (Avellino); l'articolo su Nobile politico
















Umberto Nobile nel 1946 espose in un piccolo libro di sedici pagine le ragioni che lo spinsero ad accettare la candidatura nel PCI per le elezioni dell’Assemblea Costituente. In apertura pose la lettera a Edoardo D’Onofrio, segretario della federazione laziale del partito, e la risposta di Palmiro Togliatti. Nella rivista viene riportato tutto quel testo. Riprendiamo qui la lettera introduttiva:

Roma, 17 aprile 1946


Caro D’Onofrio,
le com
unico la mia definitiva decisione di accattare la candidatura offertami come indipendente nelle vostre liste del Lazio e di Salerno Avellino.
L’ho presa dopo mature riflessioni, e dopo aver superato molti ostacoli interiori; ma l’ho presa con piena coscienza delle responsabilità e delle difficoltà cui vado incontro.
Pur non aderendo al P. C., ritengo mio dovere partecipare con voi alla lotta per la Costituente, perché concordo con il programma di rinnovamento repubblicano e democratico che voi presentate al Paese.
Di fronte al riaffiorare nella vita italiana di elementi che si oppongono a quelle profonde riforme sociale e politiche che il momento attuale esige, prendo, senza più esitare, posizione al vostro fianco, perché offrite la maggiore garanzia di realizzare effettivamente quel rinnovamento, in unione alle altre sane forze democratiche agenti nell’interesse della nostra Patria.
Compio questo passo con animo tranquillo dopo le precise dichiarazioni di Togliatti sul problema religioso.
Cordiali saluti

UMBERTO NOBILE

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Segnaliamo un'altra pubblicazione irpina sull'avventura del "Norge" di Nobile: Roald Amundsen, Quel che ho visto dal "Norge", a cura di Paolo Speranza, Edizioni Laceno, Avellino 2007

martedì 17 giugno 2008

Prisco De Vivo: incrocio d'arti sull'orrore di Auschwitz

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Prisco De Vivo
Ad Auschwitz
Poesie 2002 - 2003
Disegni e pitture di Prisco de Vivo
Prefazione di Enzo Rega
Postfazione di Antonella Cilento

IL LABORATORIO/le edizioni, Nola (NA) 2007

con 13 poesie, 4 disegni e 6 dipinti di Prisco De Vivo

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IN SILENZIO SULLA STRADA PER AUSCHWITZ*

Non sono mai stato ad Auschwitz, nel cuore dell’orrore, ma la sua anticamera l’ho vista. Cioè, il campo di Terezin (o Theresienstadt), a nord di Praga. Ci arrivai una mattina di febbraio, con appresso un’intera scolaresca che accompagnavo: c’erano quindici gradi sotto zero (ma comunque da quelle parti: “I raggi del sole / Non riscaldano le mani”). È rimasto un filmino, in cui i miei alunni si aggirano, imbacuccati e attoniti, tra le costruzioni in pietra di quello che era un campo di smistamento, ma dove, volendo, si poteva morire lo stesso: di stenti, di malattia, per rappresaglia: in fondo c’è ancora il muro delle fucilazioni. Terezin era il presunto campo modello, quello che i nazisti presentavano alle delegazioni straniere per dimostrare come gli internati lavorassero e riuscissero perfino a divertirsi. C’era (c’è) anche un teatro (leggiamo pure in questo libro: “A fine settimana / Inizia il concerto. / Date un’ultima occhiata / Agli spartiti. / Accordate gli strumenti. / Ci sarà dell’ottima musica, / Qui ad Auschwitz”). Una farsa, cui si metteva fine appena i visitatori se n’erano andati. Ma l’orrore non fu per farsa, neanche a Terezin.
Non ricordo se fu lì che vidi le collezioni di oggetti sottratti ai deportati che i nazisti suddividevano con cura: orologi, dentiere, scarpe. O vidi solo delle foto (o anche le foto le vidi altrove). Nei quadri di De Vivo ritornano quegli scarponi, a pesare sui volti disperati dei suoi personaggi, con la loro consistenza materica che più di tutto può dar conto della concretezza della sofferenza: anche quello dello spirito, nel momento in cui lo si prova, è un dolore concreto che diventa spasmo fisico e senso di nausea. E poi nei versi: “I piccoli Victor, Marnie / Eduard, Maria, Gustav / in fila con le loro scarpe in bocca…”; “Ripenso a quel sogno. 1200 ebrei nudi / Con le scarpe al collo / E gli assordanti passi dei soldati” (e segue, nel testo, una danse macabre). Anche l’anima che soffre è di carne, e allora non si può non parlare di “corpi rosa” brutalmente trascinati, di “corpi scheletrici”, del piscio della paura. E non si può, allora, non scarnificare al massimo la parola. Lasciare anch’essa, e la frase che la porta, ridotte a uno scheletro. Theodor W. Adorno si chiedeva addirittura se fosse ancora possibile la poesia dopo Auschwitz. Il rischio, poi, è che, oltre che il male, ad essere banali siano anche le nostre parole che parlano del male: e quindi ciò che possiamo dirne forse dovrebbe rasentare il silenzio – o diventare urlo dispiegato, archetipo primordiale d’ogni suono umano, pianto natale. Se non che il “tema del silenzio” è diventato vero tema ebraico, come documenta David Grossman che racconta il silenzio dei vecchi sopravvissuti ai campi, e come ricorda Francesca Sanvitale.
Non solo la poesia sembra impallidire di fronte al male assoluto, dio stesso arretra e rinuncia alla sua onnipotenza: così per Hans Jonas non può non cambiare il concetto medesimo di dio dopo Auschwitz. E qui scrive Prisco: “Dalle tante chiese, Signore, / Interrogo / l’occhio del tuo triangolo, / senza una risposta”.
Sul viale di Terezin, al ritorno, fuori di quel “campo del sangue” (per dirla con Eraldo Affinati che con Plinio Perilli ha compiuto un lento avvicinamento all’altro terribile campo di sterminio), in quella piana brulla schiacciata dal freddo, da sotto la sua sciarpa, un’alunna disse: “Grazie”. Grazie per averla condotta in quel luogo senza grazia. Aveva la stessa età la francese Louise Jacobson, strappata al suo liceo e, il 13 febbraio 1943, deportata ad Auschwitz. Così scrive, prima di partire: “Papà mio carissimo, ho una notizia triste, caro papà. Dopo la zia, tocca a me partire. Ma non fa niente. Io sono su di morale, come tutti qui del resto. Non devi amareggiarti, papà… Partiremo domani mattina”. Non sarebbe più tornata, ovviamente. Un tale Brisset firmava per il Prefetto di polizia di Parigi questo notarile documento: “Come Vi è stato notificato, la suddetta operazione [arresto di tutti gli ebrei del distretto della Senna] ha avuto luogo nella notte fra il 10 e l’11 febbraio 1943. 1549 Ebrei (adulti di entrambi i sessi e bambini) sono stati internati nel campo di Drancy [dove era già Louise, imprigionata alla fine di agosto], da dove saranno probabilmente deportati verso l’Est”. Cosa che avvenne, nonostante l’opposizione dei poliziotti francesi, per ordine di Eichmann, il “banale” uomo del male di Hannah Arendt.

Enzo Rega
*Il testo fa da prefazione al volume
vedi ancora1: dipinti
vedi ancora 2: sculture
vedi ancora 3: disegni

lunedì 16 giugno 2008

Ricordato Vincenzo Russo, filosofo della libertà

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Ricordato nel suo paese, Palma Campania, in provincia di Napoli, in occasione dell'anniversario della nascita, il filosofo Vincenzo Russo (1770-1799), tra gli artefici della Repubblica napoletana del 1799. Con riferimenti a Rousseau e a Platone, immaginò una repubblica di eguali capaci di autogoverno: una serie di piccole città (in stretto rapporto con la natura) raccordate in una "Società universale", in grado di realizzare quella Pace perpetua di cui, in quegli stessi anni, parlava anche il filosofo tedesco Immanuel Kant.

da Vincenzo Russo, I pensieri politici (1798):

"Ho conosciuto l’uomo corrotto; ma ho pur meditato la natura delle sue facoltà, ed ho studiato i mezzi che potrebbero ricondurlo alla sua dignità vera. [...]
Io non ho volta la mente né alle antiche repubbliche né alle moderne, non alle nuove, non alle vetuste legislazioni: ho consultato nelle cose stesse la verità".

continua

domenica 15 giugno 2008

Massimo Cacciari sul ruolo della Chiesa

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Qualche giorno fa, in un Post, a proposito della giustificazione da parte di Cacciari della validità giuridica della condanna di Giordano Bruno da parte della Chiesa, me la "prendevo" con il filosofo veneziano per certe sue posizioni pro Ecclesia e citavo la sua partecipazione a un altro incontro a Nola in ricordo del Concilio Vaticano II. Riporto ora qui un articolo da me scritto per quell'occasione e uscito nel 2002 sul quotidiano di Avellino (ora chiuso) "Piazza Libertà":

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ANCHE IL FILOSOFO VA IN CHIESA
Massimo Cacciari interviene a Nola sul Concilio Vaticano II
(ottobre 2002)
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di Enzo Rega
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Dopo anni di disinteresse per la religione se non di aperto anticlericalismo, la cultura e la filosofia italiana ritornano a confrontarsi con temi teologici, anche grazie a personalità provenienti da aree vicine al marxismo o comunque da ambienti della sinistra. Così è anche nel caso, fra i più autorevoli, di Massimo Cacciari, ex sindaco di Venezia, docente di Estetica nell’Università della città lagunare, che aveva già contribuito a “sdoganare” nella sinistra filosofi come Nietzsche e Heidegger. L’autore di Icone della Legge e de L’angelo necessario è intervenuto a Nola giovedì 17 ottobre, al Teatro Umberto I, nel primo degli incontri culturali organizzati per la stagione 2002-2003 dalla Biblioteca S. Paolino del locale Seminario. Il convegno pubblico, intitolato “A quarant’anni dal Vaticano II”, vedeva anche la partecipazione di Mons. Luigi Bettazzi, padre conciliare, che portava la diretta testimonianza dei lavori aperti nel 1962 da Papa Giovanni XXIII e condotti a compimento da Paolo VI. Fra il filosofo non credente e il vescovo della Chiesa di Roma si è realizzato un curioso e stimolante, inquietante, gioco delle parti, con il secondo che parlava come un laico e il primo, come ha sottolineato lo stesso Bettazzi, da vescovo. Cacciari, infatti, con la lucidità che lo contraddistingue, accoppiata a quello che, con apparente contraddizione, possiamo chiamare pathos argomentativo, ha parlato del Concilio Vaticano II non in una banalizzante ottica laica e mondanizzante, ma dall’interno di una prospettiva rigorosamente religiosa, tanto più interessante quanto perseguita da un non credente.
In apertura del proprio intervento nolano (in quella Nola, ricordiamolo, patria di Giordano Bruno – spirito profondamente religioso ma anticonformista – mandato a morte dalla Chiesa del Seicento), Cacciari ha sottolineato come il Concilio Vaticano II avesse rivalutato un tipo di spiritualità viva, nel Novecento, soprattutto in laici e non credenti o in teologi non cattolici, come il protestante Karl Barth. E il Concilio ha reso poi possibile un dialogo prima impossibile fra credenti e non credenti. Già questa capacità di attingere a fonti diverse per riproporle al mondo cattolico è in linea con il principio che informa il Concilio: il cristiano deve finalmente essere considerato maturo e responsabile, non più un puer da formare. Qualcosa di sconvolgente, ammette Cacciari, è questa affermazione di libertà, è l’“inaudito” del cristianesimo e rappresenta anche una drammatica contraddizione nei testi conciliari, nei quali contemporaneamente si afferma l’impossibilità di salvezza al di fuori della Chiesa. Contraddizione interna al paradosso generale per il quale la Chiesa è custode della fede ma in vista della crescita del credente e della sua emancipazione dalla Chiesa stessa, la quale così lavora per la propria fine istituzionale. Se ciò è proprio del Concilio, è però rintracciabile nella storia della Chiesa: Sant’Agostino – ricorda Cacciari – non diceva forse: “io sono il vostro vescovo, ma sono un cristiano come voi”? Il vescovo dunque non è più il capo, ma colui che consiglia in un “familiare commercio”. Il vero atto di fede che emerge da questi atteggiamenti non è quello di credere in Dio, ma nell’uomo. “La vera fede – ribadisce Cacciari – è credere nell’uomo”. L’uomo, in quanto capax Dei è capace di “fare la pace”, come spesso ripete il Vangelo. Quel Vangelo sostanzialmente “prassico”, pratico, nel quale la parola più ricorrente è poiein, “fare” appunto. Il carattere pratico vale per l’etica, non può valere per la verità, continua il filosofo veneziano: non si può fare la verità, la verità la si contempla; si può e si deve invece fare la pace come realizzazione dell’amore per il prossimo e non di un generico amore per l’uomo (non l’astratta “filantropia”). Significa sentirsi responsabile, per il cristiano, della sofferenza altrui; è il "prendersi cura” (ricordiamo qui come la Cura sia tema fondamentale per Heidegger, quell’Heidegger che, pur muovendo da altre preoccupazioni, ha finito per offrire prestiti alla teologia protestante). Un cristianesimo esigente dunque – insiste Cacciari – quello che viene fuori dai documenti conciliari: si chiede ai credenti di costituire un “popolo sacerdotale”, di essere tutt’uno con i propri vescovi, i quali non vengono semplicemente nominati da un superiore terreno ma sono investiti direttamente da Cristo. Quello che ci si può chiedere ora è se il popolo cristiano è stato capace dell’assunzione di responsabilità richiesta dal Concilio. E la Chiesa stessa ha creduto al messaggio di maturità? Secondo Cacciari questa capacità, in questi quarant’anni, non c’è stata. E osserva che è stato più facile dimenticare il Concilio, metterlo fra parentesi. Ora – continua il filosofo – non bisogna tanto interrogarsi su cosa è vivo e cosa è morto dello spirito conciliare, quanto piuttosto chiedersi cosa di quel messaggio è così difficile da ascoltare. Alla conclusione dei lavori conciliari si è registrato un atteggiamento contrapposto: da un lato, da parte delle correnti più retrive, un tentativo di ridogmatizzazione; dall’altro, da parte delle ali più progressiste, un errore parallelo di estrema mondanizzazione. Dimenticando in questo caso che il Concilio, coerente con il Vangelo, non chiedeva semplicemente di entrare nel mondo e diventare pienamente di questo mondo. Al contrario, chiedeva di scegliere: “a quale padrone obbedisci? Deciditi!” Il cristiano deve sì entrare in questo mondo, ma portando un discorso che non è di questo mondo: questa è l’incarnazione, si è “in” questo mondo ma non si è “di” questo mondo. Quello della mondanizzazione, osserva però Cacciari, era un pericolo immanente ai testi conciliari nutriti in modo talvolta incontrollato dei fermenti più vivi e inquieti della teologia novecentesca. Alla fine, cosa fare a distanza di quarant’anni? Dice Cacciari: “Occorre riprendere il Concilio sulla base di ciò che non si è realizzato, per ridigerirlo, consapevoli dei pericoli. Sono ancora testi pericolosi”. Se la Chiesa sarà capace di farlo, potrà davvero porsi come l’unica autorità, non solo religiosa ma culturale, in grado di fare un discorso vero sul mondo contemporaneo. È a quel Concilio di quarant’anni fa che bisogna ancora rifarsi, perché se si tenesse oggi un nuovo Concilio – come ha osservato Mons. Bettazzi in risposta a una domanda – esso non potrebbe dire, di questi tempi, cose così radicali come allora. Cacciari ha poi osservato, riprendendo una domanda sull’ecumenismo degli incontri di Assisi, che la Chiesa non può rinunciare alla propria specificità: “L’ecumenismo si costruisce dibattendo la differenza. Altrimenti si fa spettacolo, importante anche quello. Rispetto ai bombardamenti sono meglio gli spettacoli di pace”. Ma vanno evitati i toni semplicemente “sentimentali”, come accade talvolta in simili occasioni. Il ruolo della Chiesa dunque rimane legato a quello dell’annuncio di una profezia, che forse rimarrà spesso inascoltato, ma per questo ancora più necessario contro il “nichilismo compiuto” dei nostri tempi. L’identità cristiana della nostra civiltà ridiventa così fattore correttivo indispensabile contro la sua corruzione.
La visione di Cacciari, rigorosa appunto in un’ottica interna alla Chiesa e allo spirito dei Vangeli, nel momento in cui riconosce l’importanza del ruolo del mondo religioso, e ne ribadisce l’unicità, ammette pure la sconfitta della cultura laica ormai inerme di fronte alla negazione dei valori umani fondamentali. C’è di che riflettere. Soprattutto al di fuori della Chiesa.

Marco Mele, un disegno dal taccuino

.Immagine tratta dal volume di
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Angela Sorrentino
Io Marco Mele sono pittore
Loffredo Editore, Napoli 2008
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martedì 10 giugno 2008

Marco Mele, pittore del Cinque-Seicento

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UN LIBRO SUL PITTORE MARCO MELE PER CELEBRARE IL
BICENTENARIO DEL COMUNE DI CARBONARA DI NOLA (NA)


L'8 giugno 2008, presso il teatro Parrocchiale di Carbonara di Nola, nell'ambito delle Manifestazioni dedicate al bicentenario della costituzione del Comune (1809-2009), è stato presentato il libro di Angela Sorrentino, Io Marco Mele sono pittore, Loffredo Editore, Napoli 2008. La giovane studiosa ha raccolto nel volume riproduzioni di tutti i quadri pervenutici del pittore seicentesco (la prima pubblicazione comprensiva dunque dell'intera opera dell'artista campano). In più, sono offerti al pubblico per la prima volta gli schizzi e le prove contenute in un taccuino conservato dai discendenti.
Del pittore Marco Mele, un "minore" (con l'accezione tecnica non negativa che ha questo termine, che serve a designare un artista dignitoso che non ha però raggiunto grandissima fama), si sa poco, a cominciare dalla data della nascita, da collocare probabilmente non più tardi del 1570. le opere di cui discute Angela Sorrentino sono: l'Annunciazione della chiesa dell'Annunziata di Carbonara di Nola (opera firmata); l'Immacolata con i santi Francesco e Antonio, chiesa dell S.S. Rosario e Corpo di Cristo di Palma Campania (opera firmata e datata 1593; l'opera fu trafugata nel 1999 e poi parzialmente recuperata: solo un tondo con Madonna e bambino); la Madonna delle Grazie con tre santi vescovi, chiesa dell'Annunziata di Minturno (opera attribuita); l'Apparizione di Cristo e della Madonna a San Francesco, chiesa di Santa Maria la Nova a Napoli del 1601 (opera firmata); la Madonna del Rosario, chiesa di Santa Maria della Libera a Napoli (opera attribuita).
Senza dubbio - come Angela Sorrentino sottolinea - emozionante deve essere stato lavorare sul taccuino, entrando così nel laboratorio creativo dell'artista, ma anche nella sua vita privata perché, come spesso accadeva, tali quaderni contenevano un po' di tutto, dal promemoria all'appunto creativo. E così, in una pagina, compare l'espressione, "Io Marco Mele sono pittore", con la quale l'artista prendeva atto del traguardo comunque raggiunto, al di là della strada ancora da compiere: quello di essere entrato a far parte del mondo artistico e da quello esserne riconosciuto come cittadino a pieno titolo.
La scoperta, o ri-scoperta, o semplice commemorazione di chi non è stato mai dimenticato, che a livello locale si fa dei propri personaggi di rilievo è sempre meritoria. Non solo perché tale ricordo continua a svolgere, nell'epoca della globalizzazione, il ruolo di ribadire l'identità di una comunità, ma anche perché, nello studiare l'attività di un personaggio "locale" siamo costretti con lui a ripercorrere le tappe di un viaggio intellettuale compiuto per affinare la propria arte e la propria vocazione: quali esse siano. Così, Marco Mele è entrato in contatto con l'arte fiamminga quale si praticava nel Viceregno spagnolo in quel tempo. Così, alla fine de Settecento, l'eroe "locale" - e non solo - del vicino paese di Palma Campania (della cui "Università" Carbonara aveva fatto parte prima appunto di essere eretta a comune autonomo), il giacobino Vincenzo Russo si ciberà dell'illuminismo campano e di quello francese (Rousseau specialmente) nonché di riferimenti platonici e aristotelici.
Per dire, il nostro eroe di casa è cittadino del mondo...
[E.R.]
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sabato 7 giugno 2008

Giordano Bruno: un ricordo 460 anni dopo

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Ricorrono nel 2008 460 anni dalla nascita di Giordano Bruno a Nola, poco lontano da qui. Affacciandomi sul balcone di casa che guarda al Vesuvio e da cui lo sguardo spazia sull'agro nolano e quel pezzo di Campania (una volta) Felix, vedo la città di Bruno acquattata sotto le colline e sotto quel Monte Cicala nei cui pressi sarebbe nato il filosofo. Vedo fronteggiarsi quei due monti, Cicala, appunto, e Vesuvio, confrontando i quali, nel De immenso, Bruno stabiliva analogie nei rispettivi rapporti fra Terra e altri corpi celesti.
Pochi giorni fa a Nola il filosofo Massimo Cacciari, intervenendo a una discussione relativa al processo dell'Inquisizione intentato a Bruno, ha sostenuto che la Chiesa non poteva non condannare il filosofo nolano, stando alle norme del proprio diritto. Il processo è stato regolare. Che lo sia stato, e che per ragioni politiche la Chiesa non potesse assolvere Bruno, non l'assolve dalle proprie responsabilità morali. E c'è anche un piccolo dettaglio: condannare a morte a nome di Cristo ci appare non piccola contraddizioine. A volte Cacciari, grande filosofo e illuminato amministratore politico, si lascia sedurre da una spinta Realpolitik e diventa più realista del re. Abbiamo assistito, proprio a Nola, tempo fa, precisamente il 17 ottobre 2002, a un dibattito rievocativo del Concilio Vaticano II, nel quale il sindaco di Venezia veniva scavalcato a "sinistra" da Mons. Bettazzi, più critico nei confronti della stessa istituzione ecclesiastica. Spiacevolmente ci aveva colpito la boutade del teologo Bruno Forte, ascoltato anni fa a Sassuolo nell'ambito del festival di Filosofia, che analogamente sosteneva l'inevitabilità della condanna di Bruno: forse la Chiesa aveva sbagliato solo nell'arrostirlo sul rogo. Ma guarda un po'!
*Ripubblico qui un mio articoletto uscito nel 2004 sul periodico locale "Il Pappagallo" per una precedente edizione del Certame Internazionale Bruniano che si tiene ogni anno a Nola:
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BRUNO E LA MAGIA
Sono partite anche quest’anno le manifestazioni dedicate al filosofo Giordano Bruno, messo al rogo a Roma, in Campo de’ Fiori, il 17 febbraio 1600. E proprio il 17 febbraio scorso, nell’aula consiliare del comune di Nola, hanno avuto inizio le celebrazioni. Durante i lavori del pomeriggio è stato presentato un interessante corso introduttivo all’osservazione del cielo e sono state tenute due relazioni, una del prof. Aniello Montano, docente di Storia della filosofia all’Università di Salerno, l’altra del prof. Maurizio Cambi, ricercatore presso lo stesso Ateneo. Aniello Montano, che è anche presidente della commissione esaminatrice del Certame Internazionale Bruniano (giunto alla IV edizione: gli studenti delle medie superiori saranno impegnati dal 26 al 28 marzo), ha parlato degli infiniti mondi bruniani, a partire in modo particolare dal dialogo De la causa, principio et uno – che sarà oggetto della prova che impegnerà i giovani nel Certame di quest’anno –, tenendo vivo l’interesse degli ascoltatori con la sua rigorosa chiarezza pur affrontando questioni tecniche del pensiero del Nolano. Cambi, con uguale felice risultato, ha affrontato il rapporto fra eros e magia nel pensiero di Giordano Bruno. Come è noto, Bruno fu denunciato all’Inquisizione veneta dal patrizio Mocenigo, che lo ospitava nella città lagunare, con l’accusa di praticare arti magiche. In realtà, Mocenigo era rimasto deluso proprio per quest’aspetto: Bruno infatti si rifiutava di insegnare la magia nera. Come Cambi ha messo in evidenza, il Nolano distingueva fra la magia nera e la magia naturale, la prima da evitare e la seconda da intendersi come una forma di conoscenza e di intervento sulla realtà: una sorta di anticipazione per gli intenti, anche se non sempre per i mezzi, della scienza moderna che di lì a poco si sarebbe sviluppata in Italia, per impulso di Galilei, debitore inconfessato proprio di importanti acquisizioni bruniane. Ad esempio, le argomentazioni volte a sostenere il movimento della terra contro ogni apparenza dei sensi e l’affermazione che l’intento delle Scritture è etico e non conoscitivo sono di Bruno e Galilei se le appropriò senza citare il Nolano. A Bruno poi la magia interessava non solo in relazione al mondo naturale, ma forse soprattutto in relazione a quello umano, attribuendole una funzione civica. Anche la persuasione, l’intervento sulle menti altrui hanno carattere magico. Allora, sarebbe stato opportuno che il mago filosofo si dimostrasse capace di influenzare e convincere i governanti a operare per il bene e per la pace. Tutt’altro dunque dalla magia nera. E Bruno, come ha sottolineato sempre Cambi, non disdegnava di avvicinare la magia anche all’arte della seduzione sentimentale, dando una serie di consigli pure in campo amoroso. Dove, come tutti sanno, un po’ di magia per conquistare e conservare la persona amata sarebbe utile.
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Enzo Rega