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giovedì 31 luglio 2008

Messina: Horcynus Festival 2008

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VI edizione, dal 20 luglio al 3 agosto 2008, dell'Horcynus Festival, la rassegna cinematografica curata dal Parco letterario Horcynus Orca, dedicato allo scrittore Stefano D'Arrigo, che si tiene a Capo Peloro, frazione di Messina, nell'estremo lembo di terra che si protende verso l'Italia: di fronte alla calabrese Scilla e quindi nel luogo corrispondente alla mitica Cariddi. Il Parco e il festival fanno da ponte culturale tra Continente e mediterraneo, Europa e Medio Oriente, come è testimoniato dal programma della rassegna di quest'anno che porta avanti, sviluppandole le intenzioni e la vocazione emersa fin dall'inizio. A tematiche di carattere sociale e politici (quest'anno il prologo dedicato alla ricorrenza del '68 e poi la presentazione di un libro sui fatti di Reggio Calabria nel '70) si affianca l'attenzione per il mondo arabo e quello femminile in particolare. Come ha detto uno dei curatori, il giornalista curdo Erfan Rachid, la donna nel mondo arabo spesso è oppressa, ma certo non smette di lottare. Sul tema della condizione femminile è stato trasmesso anche il bel film rumeno 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni (2007) di Cristian Mungiu sul dramma dell'aborto clandestino in una Romania ancora sotto Ceausescu. Molto bello il documentario Madri di Barbara Cupisti, che fa incontrare madri ebree e palestinesi, concordi nel ritenere che nulla giustifichi lo spargimento di una sola goccia del sangue dei figli.
Accanto a film e documentari, poi, tavole rotonde, dibattiti e presentazioni di libri.

foto di Enzo Rega, tranne 6 e 7, tratte dal sito dell' Horcynus Festival: nelle foto compaiono Franco Jannuzzi con delle collaboratrici, e poi Jannuzzi con Erfan Rachid e Massimo Barilla

HORCYNUS FESTIVAL 2008

direzioni artistiche: Franco Jannuzzi, Erfan Rachid, Massimo Barilla, Giacomo Farina

Programma


Dal 20 luglio al 3 agosto torna a Messina l’Horcynus Festival.
La sesta edizione dell’Horcynus Festival di Messina prenderà il via il 20 luglio, al Parco letterario Horcynus Orca nell’area di Capo Peloro, la Cariddi del mito, e si concluderà il 3 agosto.
L’Horcynus Festival, dedicato alle arti del Mediterraneo, si articola in più sezioni (cinema, musica, teatro, arti visive), ognuna delle quali arricchita da incontri, workshop, convegni con i protagonisti del festival nell’intento, che muove da sempre l’attività della Fondazione, di promuovere la ricerca e lo scambio culturale tra le diverse sponde del Mediterraneo.
Questa edizione del Festival è divisa in due parti. Un prologo (20-23 luglio), dedicato al cinema italiano degli anni ’70 e la manifestazione vera e propria che partirà il 24 luglio con il Parlamento civile degli intellettuali del Mediterraneo, un workshop in cui figure di spicco dei paesi che si affacciano al mare nostrum ragioneranno insieme sui modelli di sviluppo economico e sociale e sulle domande comuni che Nord e Sud devono cominciare a porsi per crescere in modo integrato. Sarà presente anche l’ex ministro italiano per l’attuazione del programma Giulio Santagata.
Apertura dell’Horcynus Festival
Emilio Isgrò apre l’Horcynus Festival (24 luglio, ore 21)L’evento che darà il via ufficiale all’Horcynus Festival sarà l’inaugurazione del cancello/opera d’arte che l’artista siciliano Emilio Isgrò ha appositamente progettato per la cinquecentesca Torre degli inglesi che è una delle sedi della Fondazione. In questa occasione si potrà visitare anche l’altra opera che Isgrò ha ideato per la Fondazione, un’installazione permanente dedicata al compositore messinese Casalàina che sarà collocata in alcune sale della Torre.
L’evento è a cura di Gianfranco Anastasio.
A seguire, Martina Corgnati, membro del comitato scientifico della Fondazione per l’arte contemporanea, presenterà l’archivio di video arte araba della Fondazione Horcynus Orca.
Gabin Dabiré in concerto (24 luglio, ore 23)All’Horcynus Festival la grande etno-music. Il cantastorie, percussionista e chitarrista del Burkina Faso Gabin Dabiré chiuderà la prima serata con una performance di voci, percussioni e lira africana in cui sarà accompagnato da musicisti senegalesi.

Le rassegne cinematografiche dell’Horcynus Festival
Gli anni selvaggi, il cinema italiano nel decennio 1968-1978 (20-23 luglio)
Nel trentennale dall’assassinio di Aldo Moro, la rassegna di cinema italiano degli anni ’70 funge da prologo all’intera manifestazione con incursioni anche dopo il 23 luglio. Il filo rosso che ha guidato la selezione, curata da Franco Jannuzzi, è il rimescolamento totale che ha contraddistinto quegli anni «formidabili» sul piano sociale, politico e individuale, ma anche i riflessi che ha avuto sul modo di fare cinema. I film scelti, però, non parlano solo del “macro” di cui ormai tutto (o quasi) sappiamo. Raccontano anche degli individui, dei percorsi soggettivi di persone pienamente immerse nel clima culturale di quegli anni, delle cui contraddizioni sono uno specchio. E rappresentano anche il cambiamento del costume. Ecco allora che accanto al più classico Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri (1970, proiettato il 22 luglio alle 23, c’è Grazie zia di Salvatore Samperi (1968, 20 luglio alle 22. 45). E a fianco di Amore e rabbia ((Lizzani, Godard, Bellocchio, Bertolucci, Pasolini, 1969, 21 luglio alle 21), c’è Ultimo tango a Parigi di Bertolucci (1972, 25 luglio, dopo le 23). Ma anche Gatto selvaggio di Andrea Frezza (1969, 3 agosto dopo le 23), Ciao Maschio di Marco Ferreri (1977, 23 luglio alle 23). E poi due film recenti sugli anni ’70: Buongiorno notte di Marco Bellocchio (2003, 2 agosto 2008 dopo le 23) e Vogliamo anche le rose, di Alina Marazzi (2008, 30 luglio ore 21. Il 2 agosto la Fondazione Horcynus Orca premierà l’attore Roberto Herlitzka per la sua interpretazione di Aldo Moro in Buongiorno notte.
Dal 25 luglio in poi, attorno alle 21, strisce giornaliere di quindici minuti sugli eventi degli anni ’70 realizzati da Rainews24
Il cinema arabo.
Film, cortometraggi, autori e attori (26 luglio – 2 agosto)La tradizionale rassegna di cinema arabo, curata da Erfan Rashid, conta oltre venti fra film e cortometraggi inediti in Italia ed è dedicata alle donne nel mondo arabo, alla loro condizione ma anche al modo in cui si vedono e si rappresentano le donne arabe, data la presenza di molte opere firmate da registe, alcune delle quali saranno presenti al festival.
La rassegna è divisa in tre sezioni – Il pianeta è donna, Carcere… carceri..,, Omaggio al cinema dei poveri – che affrontano il tema da diversi punti di vista.

Il pianeta è donna mette a fuoco la condizione femminile con film come Dunia della regista libanese Jocelyn Saab (Egitto 2006, verrà proiettato il primo agosto alle 21.20) che è stato censurato da alcuni paesi arabi ma in Egitto ha dato il via a un dibattito che ha portato il parlamento egiziano a votare una legge contro l’infibulazione. O con film come Madri, di Barbara Cupisti (Italia 2007, 26 luglio, ore 21.30), che al Festival di Venezia ha vinto il David di Donatello per la categoria documentari ma che non è ancora uscito nelle sale. La regista italiana ha raccolto le testimonianze di madri israeliane e palestinesi i cui figli sono rimasti vittime del conflitto. Jocelyn Saab sarà presente al Festival nei giorni delle proiezioni.
Carcere…carceri… mette l’accento sulle reclusioni – penitenziarie o sociali – delle donne arabe. Con documentari come Amina di Khadija Salami (Yemen 2007, 29 luglio, 21.40), che ricostruisce la vicenda della donna che rischiò la lapidazione per adulterio perché aveva avuto una bambina dopo il divorzio dal marito. O come Un giorno nel carcere femminile di Kadhumia a Baghdad, di Oday Salah, che, attraverso le interviste di alcune recluse, mette in luce un fatto paradossale, e cioè che, data la situazione in Iraq, per le donne il carcere finisce di essere un luogo di protezione, un posto in cui vivono meno peggio che altrove.
Khadija Salami sarà presente al Festival nei giorni delle proiezioni.
Omaggio al cinema dei poveri parla di come si fa il cinema, di come viene vissuto e della funzione sociale che ha nei paesi arabi in cui soldi e produzioni scarseggiano. Bellissimo Fi Intiddhar Pasolini, In attesa di Pasolini, di Daoud Aoulad Syad (Marocco, 2007, 2 agosto ore 21.30), che racconta di un film italiano che si deve fare in Marocco e di un tecnico marocchino che deve lavorare in quella produzione. A suo tempo aveva lavorato con Pasolini. Sicché per lui aspettare la troupe diventa “aspettare Pasolini”, che poi, ovviamente, non verrà.
In chiusura di rassegna, una giuria di critici cinematografici arabi premierà l’opera migliore.
È prevista un’anteprima per la stampa di tutti i film e di tutti i cortometraggi nella tarda mattinata della giornata che precede la proiezione ufficiale.
Oltre ai registi indicati saranno presenti numerosi altri registi, attori e critici cinematografici.


I dibattiti dell’Horcynus Festival
La psichiatria, le donne e il cinema.
Tre vere rivoluzioni degli anni ’70. Conversazioni e dibattiti
Sulla scia della rassegna cinema, l’Horcynus Festival ha organizzato conversazioni e dibattiti su tre vere rivoluzioni degli anni ’70, quella della psichiatria, quella delle donne e quella del cinema.
Un futuro di 180, 27 luglio, ore 22
Angelo Righetti, Biagio Gennaro e Franco Rotelli discuteranno della psichiatria prima e dopo Basaglia. Al termine, performance di poesia, musica e immagini di Lello Voce e Michael Gross.
La rivoluzione non è un pranzo di gala, 30 luglio, ore 22.30
Che cosa è stato il movimento delle donne e come è cambiato negli anni. Conversazione su donne, femminismo e postfemminismo alla Carrie Bradshow e Samantha Jones con Alina Marazzi e Franca Fossati. Dopo la proiezione di Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi, che avverrà alle 21.
Gli anni selvaggi, 3 agosto, 22.30
Confronto fra Andrea Frezza e Paolo e Vittorio Taviani sul cinema degli anni ’70.


Le presentazioni dell’Horcynus Festival

25 luglio
Ore 22. 00 1958-2000. Quarant’anni di storia d’Italia in pillole. Conversazione con Fausto Pellegrini, Rainews24.
Ore 22.30
L’Horcynus Festival 2008, presentazione a cura di Franco Iannuzzi e Erfan Rashid
1 agosto
21.15 Proiezione del documentario di Enrico Fierro, La santa. Viaggio nella ‘Ndrangheta sconosciuta (Globo d’oro 2008). 22.15
La santa, viaggio nella ‘Ndrangheta sconosciuta, Conversazione con Enrico Fierro

La musica all’Horcynus Festival

Musica Nomade. Etno-music all’Horcynus Festival
Con tre artisti di fama internazionale come Gabin Dabiré, Franca Masu e Antonio Calogero a Messina, all’ Horcynus Festival 2008, va in scena l’etno-music in alcune delle sue varianti più raffinate e innovative.
Gabin Dabiré, 24 luglio ore 21
Il concerto del cantastorie, percussionista e chitarrista del Burkina Faso Gabin Dabiré apre la sesta edizione dell’ Horcynus Festival il 24 luglio.
Una performance di voci, percussioni e lira africana in cui Gabin sarà accompagnato da musicisti senegalesi.
Lello Voce e Michael Gross, 26 luglio, dopo le 23
Poesia e musica, parole e suoni. Il napoletano Lello Voce incrocia la sua lirica affilata con le sonorità di un grande della musica americana, Michael Gross, il trombettista preferito da Frank Zappa. Performance ad alta densità sperimentale per il Linton Kwesi Johnson italiano che riprende il filone dei canti popolari afrogiamaicani e del dub per mixarlo con la sperimentazione lirica, con la musica colta e con le immagini. Che saranno dedicate a una delle (vere) rivoluzioni degli anni ’70, quella che ha prodotto la legge Basaglia nella psichiatria.
Franca Masu, 28 luglio dopo le 23
Come nel suo stile, la folk singer sarda terrà un concerto delicato e pieno di sonorità mediterranee che rimandano alla saudade del Fado portoghese e alla passione del tango. Percussioni, contrabbasso, chitarra e voce. Lingua ufficiale: il catalano di Alghero.
Antonio Calogero, 31 luglio, dopo le 23
Messinese d’origine, Antonio Calogero ha preso dagli Stati Uniti dove vive da molto tempo le sonorità jazz e le ha mixate con i tamburi e le percussioni della world music e della musica etnica. All’Horcynus Festival suonerà con un tamburellist pugliese, un percussionista afrocubano e un sassofonista nordamericano. Un concerto strumentale di pura fusion fra jazz acustico e musica mediterranea.

Mostre e installazioni
24 luglio
Reggio ’70, I giorni della rabbia e della passione
Mostra e installazione multimediale realizzata da Massimo Barilla, Salvatore Arena, Fabio Cuzzola sulla sommossa popolare di Reggio Calabria del 1970.
25 luglio
L’attimo neorealista. Fotogrammi 1941-1952
Esposizione organizzata dalla Fondazione Ente dello Spettacolo in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Le presentazioni dell’Horcynus Festival
25 luglio
Ore 22. 00.
1958-2000. Quarant’anni di storia d’Italia in pillole.
Conversazione con Fausto Pellegrini, Rainews24.
Ore 22.30
L’Horcynus Festival 2008,
Presentazione a cura di Franco Iannuzzi e Erfan Rashid

26 luglio
Ore19.30.
Presentazione del libro di Fabio Cuzzola “Reggio 1970. Storie e memorie della rivolta” Donzelli editore.

1 agosto
Ore 21.15
Proiezione del documentario di Enrico Fierro, La santa. Viaggio nella ‘Ndrangheta sconosciuta (Globo d’oro 2008).
Ore 22.15.
La santa, viaggio nella ‘Ndrangheta sconosciuta,
Conversazione con Enrico Fierro
Location
Gli eventi dell’Horcynus Festival si terranno tutti a Messina, nell’area di Capo Peloro presso la sede del Parco Horcynus Orca e alla Torre degli Inglesi, sede della Fondazione Horcynus Orca.
Ospitalità
I giornalisti che intendono seguire il Festival saranno ospiti della Fondazione.


Per informazioni:

Ufficio stampa e pubbliche relazioni Horcynus Festival 08
Fabrizia Bagozzi
348. 7137957; 06. 45401037
fabriziabagozzi@gmail.com
Maria Arruzza
347. 7163429
m.arruzza@libero.it

mercoledì 23 luglio 2008

Il Bossi e gli insegnanti meridionali

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... Il Bossi, poi, completava il suo delirio, con il ribadire l'ostracismo per gli insegnanti meridionali nel Nord Italia. Ebbene, non ricorda, il senatùr, che una volta erano gli insegnanti settentrionali a emigrare al Sud, allora poco scolarizzato e quindi privo di classe docente, in cerca di lavoro, per poi tornare a casa propria, messo insieme il punteggio necessario?
E poi lo sa - come lo sa il sottoscritto che per più di un decennio ha insegnato, volentieri e trovandosi bene, in Lombardia - che i settentrionali, i suoi padani, amano poco l'insegnamento in quanto lavoro mal retribuito avendo lì altre possibilità occupazionali ("eh, voi meridionali cercate il posto fisso", dicevano i miei simpatici, cordiali e affettuosi padroni di casa di Villastanza di Parabiago: ma senza un posto fisso, e statale magari, per noi era impossibile mantenersi, non avendo lì una famiglia alle spalle)...

p.s. e ci piace poi ricordare il milanese Luchino Visconti che gira La terra trema in Sicilia o che in Rocco e i suoi fratelli si occupa di una famiglia lucana immigrata al Nord... da un lato, e, dall'altro, pensare al film di Eduardo De Filippo Napoletani a Milano nel quale si incontrano e fraternizzano, di fronte alle difficoltà del lavoro, meridionali e settentrionali

(e sembra un po' strano oggi tornare sulle due Italie)

...continua...

martedì 22 luglio 2008

Anna Maria Carpi: poesia

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Ripropongo qui due mie recensioni di libri di poesia di Anna Maria Carpi, pubblicati su "La Mosca di Milano", 18/maggio 2008 (Compagni corpi) e on-line, in attesa di uscita sul cartaceso, su "Sinestesie", aggiornamento di giugno 2008 (E tu fra i due chi sei). (vedi anche il mio Post dedicato alla "Mosca di Milano"/n.18


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Anna Maria Carpi, Compagni corpi. Poesie 1990-2002, Scheiwiller, 2004 , p. 189, euro 13,60

Prima di occuparci del nuovo libro di poesia di Anna Maria Carpi – germanista, traduttrice e narratrice – uscito per Scheiwiller nel 2007, soffermiamoci su questo bel volume che raccoglie tutta la produzione precedente (A morte Talleyrand, Compagni corpi e Di media taglia, occhi marrone), le cui tematiche di fondo l’opera nuova riprende e approfondisce. La poesia della Carpi è mossa da un’istanza desiderativa nella quale l’autrice mette in gioco se stessa (ne va del suo esserci) nell’armonico equilibrio di elementi che le deriva dalla frequentazione di quella cultura germanica che dà alla sua scrittura una screziatura particolare. Istanza desiderativa dicevamo: «Di nuovo la mia sete/ implora, smania,/ cucciolo alla catena» (p. 178). Se fondamentale è il desiderio degli altri («anelo alla comunione», p. 176), in una tensione che fa considerare la vita altrui come epifania di un’alterità lacerante, il bisogno di far comunità, poi («Restiamo assieme», p. 125), è un far fronte alla morte nientificatrice che incombe su tutti («Chiamami niente, chiamami nessuno», p. 143), per cercare un riconoscimento eternizzante: «Ma il male vero è un altro, e non lo si vuol dire:/ dover morire/ e che nulla di nulla avesse senso» (p. 120). Per cui, seguendo il viaggio di Celan (al quale è interamente dedicata la seconda delle raccolte qui riunite), rammaricarsi di avere «una vita sola». L’insensatezza della vita di fronte alla morte non può non richiamare il Camus del dio indifferente: «Nebbia d’acqua e di fumo, / ultimo lembo della veste/ di un dio né buono né malvagio./ Dio è indifferente e viaggia senza volto/ col vento verso la terraferma/ donde anch’io vengo» (p. 140), un dio pur cercato. Quella nebbia che ritorna avvolgente e rassicurante, materna: «Cara nebbia padana, madre fitta/ sei del mattino, inverno,/ le macchine del caffé vanno in pressione/ nei primi bar aperti sul piazzale» (p. 76). Luoghi protettivi, dunque, come un grembo materno al quale regredire, non da soli ma appunto facendo comunità, come nella Stazione Centrale di Milano con cui il volume si apre (e poi “case” o “stanze” che si susseguono come luoghi d’una possibile normalità: e c’è una «porta di casa» che ci ricorda la forza evocativa de La porta della narratrice ungherese Magda Szabó, e poi una «casa d’altri» che ci riporta a Silvio D’Arzo); per chiudersi con una carrellata sui viaggiatori in un treno, in questa «terra di nessuno» che è poi magica sospensione temporale. Con la domanda finale. «Perché ci siamo?». E allora ecco la viaggiatrice con il baschetto e gli occhiali d’oro parlare parlare, come Shahrazâd, «perchè/ finché si parla non si muore,/ e morire è terribile» (p. 182). Il desiderio è desiderio di vita, è cogliere il bianco nel buio e aspettare e (ora contro Nietzsche) sperare. Che quel tubero (sinisgalliano?) sbocci.
Enzo Rega
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Anna Maria Carpi, E tu fra i due chi sei, Libri Scheiwiller, Milano 2007, pp. 82, euro 11,00

Con la nuova raccolta di poesia, Anna Maria Carpi, elbano-emiliano-irlandese che vive a Milano e insegna all’Università di Venezia, approfondisce il discorso del volume precedente, Compagni corpi, pubblicato dallo stesso editore. La sua interrogazione investe la questione più cruciale, quella della vita e della morte, con la radicalità del cinema di un Bergman o della narrativa di un’Alba de Céspedes (cfr. Nel buio della notte). E su tutto l’affermazione di Heidegger: “essere presenti significa tenersi fermi nel nulla”; anche se punto di riferimento della Carpi è piuttosto quel Nietzsche del quale ha tradotto le poesie e del quale qui ricorda la concezione dell’eterno ritorno: “E se poi ci fosse, / come voleva quel pagano Nietzsche, il ripetersi eterno dell’identico, / tempo a spirale, senza senso e dio, / nel meriggio furente, / nella notte dei tempi?” (pp. 70-71). Il tempo e dio: questioni cruciali. “Al tempo chi ci crede? Per me non può passare. Io sono un’eccezione” (p. 25; perciò il lago come acqua che ristà apparentemente su se stessa, anche se poi la felicità sembra a un certo punto affidata a una nave che in alto mare affronta la curvatura della terra). Ed ecco dei passeggeri anonimi in viaggio, sulle cui vite, per un momento ammassate in uno scompartimento, interrogarsi: “Ora fa buio e sarà buio un pezzo / e lungo il viaggio, il tempo / per contemplare gli altri / che non sanno di me né io di loro…” (p. 13); e con i quali si vorrebbe restare, perché: “Solo un viaggio comune è senza fine” (p. 14). Come spesso, è dalla banalità del quotidiano, minimalisticamente colto (con qualcosa della narrazione annichilita di un Carver), che emergono le questioni fondamentali, per uno scatto finale che può ricordare la torsione delle massime di La Rochefoucauld. Dall’ingorgo di gente davanti a un bar o dalle orde nel metrò (sempre questo stringersi insieme di “compagni corpi”) si è spinti a chiedersi: “figli di Dio o materia / per la scienza e la morte? (p. 18). Quindi, dio. Non tanto il dio che faccia giustizia sulla terra. Anche quello: “Certo, sarebbe bene che Dio fosse – / per far giustizia: grida / vendetta quello che succede / ogni giorno nel mondo” (p. 70). Ma la verità cercata ha valenza ontologica, a garanzia del nostro stesso essere, della perpetuazione del nostro esserci (non qui e ora, ma per sempre): “Io lo so bene a che mi serve Dio / […] / e mi assicuri: / in qualche forma ci sarai per sempre. / Io non domando quale” (p. 54). Anche se questa forma qualunque non soddisfaceva gli anziani della de Céspedes, legati ai loro quotidiani gesti. E forse nemmeno la Carpi che nel poemetto finale fa dire al protagonista in punto di morte: “Ditegli che non stiano a commemorami, / non val la pena, perché io sono e resto / dov’ero, in casa, nella stanza accanto” (p. 78). È difficile per il nostro “io” considerare la propria carne come “un altro”.

Enzo Rega

Prisco De Vivo: "L'oscuro fiore dell'arte"

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Prisco De Vivo


L'oscuro fiore dell'arte

Conversazioni con Enzo Rega
e Pasquale Gerardo Santella

Prefazione di Vincenzo M. Frungillo

con disegni e foto di Prisco De Vivo

IL LABORATORIO/Le edizioni, Nola (Napoli) 2007


I n d i c e


La bottega dei fantasmi
(di P.G. Santella)

Nomina et res
(conversazione con P.G. Santella)
Le ceneri della memoria
(conversazione con P.G. Santella)
La terribilità nell'arte
(conversazione con P.G. Santella)
L'oscuro fiore dell'arte
(di E. Rega)
Esistenzialismi, eternità dell'arte, filosofia e debolezze
(conversazione con E. Rega)
Arte, esistenza e malattia
(conversazione con E. Rega)

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"Lo scandalo irrisolto del corpo sembra essere oggi la questione fondamentale. Si potrebbe dire, rubando alla psicologia una sua cara espressione, che la somatizzazione del dolore e la mancata somatizzazione del dolore sono gli attuali dilemmi della filosofia, della poesia, dell'arte e della politica. Come per un'ulteriore rivoluzione copernicana, non più razionalistica ma carnale, l'uomo crede di dover trovare il proprio centro nelle membra; la domanda che lo sostiene ha il tono dello stupore: in un'ipersemiosi simbolica e visiva, cosa farsene ancora di questo busto? questo tronco, questo volto, queste mani? Cos'è il corpo e cosa sono i suoi sintomi, in un mondo che tenta di sollevarsi da terra, che tenta di anestetizzarsi nella visione virtuale della vita? L'oscuro fiore dell'arte, questo singolare libro d'arte e di pensiero a tre voci, nel suo incedere ermeneutico, nel suo procedere dialogante con le immagini del pittore De Vivo, sembra toccare questo centro problematico; le serie pittoriche dell'artista, le foto delle sue sculture, sembrano essere analizzate dagli interlocutori Rega e Santella proprio tenendo lo sguardo fisso su questo snodo cruciale".

dalla Prefazione di Vincenzo M. Frungillo


L’oscuro fiore dell’arte


L’arte, quando è vera arte, deve avere il coraggio dell’azzardo e della scommessa. Un colpo di dadi nel quale si gioca l’incontro-scontro fra lo sguardo dell’artista e l’occhio dello spettatore: e i loro rispettivi sistemi psico-nervosi. Così i volti e i corpi tormentati delle opere di De Vivo (ricordando, anche se con diverso intervento grafico e cromatico, Francis Bacon) non possono non “urtare” la suscettibilità, la sensibilità dello spettatore addomesticato dal tranquillo estetismo del soporifero bombardamento massmediatico. La sua – inutile sottolinearlo – non è un’estetica del bello. Ma, a distanza di un secolo, l’artista savianese ha il coraggio, perché si tratta di coraggioso gesto artistico, di riproporre reiteratamente – di nuovo, e ancora di nuovo – la bocca spalancata dell’Urlo di Edvard Munch. Ma l’arco di quelle labbra, passato attraverso tutto l’arco del Novecento “secolo breve” (così breve perché di troppi orrori pieno, oltre che di progressi che non sono bastati a evitare quegli orrori) ha finito per significare – è diventato – in De Vivo il buco nero del forno crematorio di Auschwitz.
Ma, poi, ancora, nella sua arte, un imbuto ha chiuso quell’apertura orale, per costringere a ingurgitare pietre, facendo passare dentro di noi, incorporandoli, gli orrori di una vita che – sartrianamente – non abbiamo scelto.
Ma, come segno, pure questo imbuto, che in altri casi diventa copricapo (è direttamente sul cervello che vogliono intervenire i persuasori più o meno occulti), viene da lontano: proprio come copricapo lo ritroviamo in Bosch.
Come da lontano viene l’altro riferimento dell’uovo (addirittura da Piero della Francesca), sospeso sulla testa delle figure rappresentate o, addirittura, nel caso delle sculture, posto a gravare direttamente sul capo (al posto dell’imbuto). Uovo primigenio, simbolo del brodo primordiale o dell’anassimandreo apeiron (sia nell’etimologia che lo voglia significare “infinito” o in quella di derivazione accadico-sumerica per cui starebbe per “fango”) delle origini (col quale il mondo greco classico – fermo restando la prima etimologia – intuì, precedendo Giordano Bruno, il fascino e l’angoscia degli spazi e dei tempi infiniti ed eterni). Ma allora qui De Vivo scarta dal ripiegamento su un definitivo e nichilistico pessimismo. Se l’imbuto era lo sprofondare nel gorgo, l’uovo è la possibilità della rigenerazione, di una psicodinamica seconda nascita.
Una esigenza di salvezza si presenta nell’opera di Prisco. Le sue figure giacomettiane si collocano sotto ombrelli, prima neri e poi rossi, dunque colorati: e qui il pittore sembra riprendere quella ricerca del colore che aveva caratterizzato l’espressionismo originario, e che si era offuscato in neoespressionisti come Miquel Barcelò e in Martin Disler – per riemergere però nella ricerca di Baselitz. Era il mondo che sembrava sempre più inghiottire la luce per non più restituirla, uniformandosi in grigi e neri. Ora, invece, di nuovo l’irruzione del colore per quegli ombrelli, che sono forse anche ripari, forse cupole di una qualche chiesa sotto la quale, kierkegaardianamente, gli uomini sono spinti dall’angoscia: riscatto e redenzione sono esigenze esistenziali ma non ancora conquiste definitive. Come per il filosofo Walter Benjamin, teso fra teologia e utopia, e stroncato dal peso senza rimedio della realtà.
Ma dalla natura, forse spiritualizzata, l’artista De Vivo, appassionato bruniano, cerca qualche risposta. Alcune sue sculture, come tronchi di legno abbruciati, sembrano nascere dalla terra per diventare, in una accelerazione darwiniana, teste di uomo, anche se ancora petrose. Marcusianamente, all’arte si affida un compito di riscatto rispetto alla banalità del male, ma ciò avviene nel mondo ancora confusamente. Perciò, questa pianta dell’arte, questo fiore è oscuro: il tronco da cui nasce e di cui si nutre è nero di fumo.


Enzo Rega


lunedì 21 luglio 2008

Riviste: "La Mosca di Milano" n. 18

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E' uscito il n. 18/maggio 2008 de "La Mosca di Milano" (Edizioni La Vita Felice) diretta da
Gabriela Fantato. Come recita il sottotitolo, la rivista realizza, trasversalmente, "intrecci di poesia, arte e filosofia", secondo un'interessante prospettiva. Ogni numero ha poi un'ampia sezione monografica
a tema. In questo ci si occupa di "Desiderio e smarrimento".




Compare una mia recensione dedicata a un volume di poesie di Anna Maria Carpi che riportiamo qui:

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Anna Maria Carpi, Compagni corpi. Poesie 1990-2002, Scheiwiller, 2004

Prima di occuparci del nuovo libro di poesia di Anna Maria Carpi – germanista, traduttrice e narratrice – uscito per Scheiwiller nel 2007, soffermiamoci su questo bel volume che raccoglie tutta la produzione precedente (A morte Talleyrand, Compagni corpi e Di media taglia, occhi marrone), le cui tematiche di fondo l’opera nuova riprende e approfondisce. La poesia della Carpi è mossa da un’istanza desiderativa nella quale l’autrice mette in gioco se stessa (ne va del suo esserci) nell’armonico equilibrio di elementi che le deriva dalla frequentazione di quella cultura germanica che dà alla sua scrittura una screziatura particolare. Istanza desiderativa dicevamo: «Di nuovo la mia sete/ implora, smania,/ cucciolo alla catena» (p. 178). Se fondamentale è il desiderio degli altri («anelo alla comunione», p. 176), in una tensione che fa considerare la vita altrui come epifania di un’alterità lacerante, il bisogno di far comunità, poi («Restiamo assieme», p. 125), è un far fronte alla morte nientificatrice che incombe su tutti («Chiamami niente, chiamami nessuno», p. 143), per cercare un riconoscimento eternizzante: «Ma il male vero è un altro, e non lo si vuol dire:/ dover morire/ e che nulla di nulla avesse senso» (p. 120). Per cui, seguendo il viaggio di Celan (al quale è interamente dedicata la seconda delle raccolte qui riunite), rammaricarsi di avere «una vita sola». L’insensatezza della vita di fronte alla morte non può non richiamare il Camus del dio indifferente: «Nebbia d’acqua e di fumo, / ultimo lembo della veste/ di un dio né buono né malvagio./ Dio è indifferente e viaggia senza volto/ col vento verso la terraferma/ donde anch’io vengo» (p. 140), un dio pur cercato. Quella nebbia che ritorna avvolgente e rassicurante, materna: «Cara nebbia padana, madre fitta/ sei del mattino, inverno,/ le macchine del caffé vanno in pressione/ nei primi bar aperti sul piazzale» (p. 76). Luoghi protettivi, dunque, come un grembo materno al quale regredire, non da soli ma appunto facendo comunità, come nella Stazione Centrale di Milano con cui il volume si apre (e poi “case” o “stanze” che si susseguono come luoghi d’una possibile normalità: e c’è una «porta di casa» che ci ricorda la forza evocativa de La porta della narratrice ungherese Magda Szabó, e poi una «casa d’altri» che ci riporta a Silvio D’Arzo); per chiudersi con una carrellata sui viaggiatori in un treno, in questa «terra di nessuno» che è poi magica sospensione temporale. Con la domanda finale. «Perché ci siamo?». E allora ecco la viaggiatrice con il baschetto e gli occhiali d’oro parlare parlare, come Shahrazâd, «perchè/ finché si parla non si muore,/ e morire è terribile» (p. 182). Il desiderio è desiderio di vita, è cogliere il bianco nel buio e aspettare e (ora contro Nietzsche) sperare. Che quel tubero (sinisgalliano?) sbocci.

Enzo Rega

vedi anche la mia recensione a Anna Maria Carpi, E tu fra i due chi sei, Libri Scheiwiller, Milano, 2007

sabato 12 luglio 2008

Il grembiule a scuola: Da Rea a Don Milani alla Gelmini

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Fui abbastanza preveggente quando tempo fa, in un precedente Post (vai a vedere), riportai un passo di Domenico Rea dai suoi ricordi scolastici intiolati Ritratto di maggio in cui lo scrittore napoletano notava come l'uso del grembiule poteva svolgere una fiunzione positiva nascondendo le differenze sociali che i diversi abbigliamenti svelavano e ostentavano. E in una mia appendice riportavo l'analogo parere che Don Milani e la scuola di Barbiana affidavano al celebre Lettera a una professoressa. Sembravano cose di un'altra Italia. Ma una mia alunna, nel sentire di Don Milani nella spiegazione, ribadiva lo stesso concetto. Ed ecco ora la trovata del neo-ministro dell'Istruzione (di nuovo non-più "Pubblica" e nuovamente Miur).
E sul "Corriere della sera-Magazine" del 10 luglio 2008 Gian Antonio Stella (Grembiuli e mascalzoni) commenta l'uscita della ministra: "Viva il grembiulino. La proposta di Mariastella Gelmini di ripristinare un minimo di serietà, di gerarchia e di ordine nella scuola italiana partendo 'anche' dal ritorno al grembiulino è puro buon senso. E quanto è accaduto a Treviso, dove una bambina di dodici anni vendeva le proprie foto erotiche per comprarsi vestiti griffati, lo conferma: meglio tutti uguali, nei vestiti. Poi vinca il migliore nelle pagelle".
Certo, da un lato si può dire che l'uso del grembiule sia solo una forma di ipocrisia, esso maschera ma non annulla le differenze socio-economiche; dall'altro, l'uso generalizzato del grembiule farebbe sì che almeno in classe le differenze sociali, seppur sempre presenti, non sarebbero immediatamente percepite in modo tale che l'autostima dei meno abbienti possa non risentirne... ma, se comparissero anche grembiuli griffati? Come per i democratici jeans: chi ricorda il mitico Fiorucci che negli anni Settanta campeggiava, status-symbol occidentale, da solo nelle vetrine moscovite ancora sovietiche?
La forbice sociale, dunque, come ormai diversi anni fa aveva previsto l'autore de Il secolo breve, Eric J. Hobsbawm, si è di nuovo allargata e, "a passo di gambero", come direbbe Eco, torniamo indietro, addirittura a un'Italia pre-omologazione pasoliniana (Pasolini rilevava come, nell'Italia del boom, abbigliamenti, espressioni, atteggiamenti e comportamenti non permerttessero più di individuare l'origine sociale delle persone). Le ri-acuite differenze sociali si riverberano di nuovo anche nel modo di vestire.
Stella però, virando nel suo pezzo in altra direzione, osserva che non basta il grembiule per ridare fiduca in una scuola che deve riacquistarla in "cose più serie". E addita il nuovo scandalo dei falsi invalidi che nelle graduatorie scolastiche hanno scavalcato gli aventi realmente diritto.
Ciò non toglie che il mondo sembra di nuovo polarizzarsi fra chi ha e chi non ha.
E qualcuno diceva che Marx semplificava troppo...

mercoledì 2 luglio 2008

In ricordo di Mario Rigoni Stern

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Mario Rigoni Stern (1921-2008) ha pubblicato tutti i suoi libri con Einaudi.


Il sergente nella neve (1953); Il bosco degli urogalli (1962); Quota Albania (1971); Ritorno sul Don (1973); Storia diTönle (1978); Uomini, boschi e api (1980); L’anno della vittoria (1985); Un amore di confine (1986); Il libro degli animali (1990); Arboreto selvatico (1991); Compagno orsetto (1992); Aspettando l’alba (1994); Le stagioni di Giacomo (1995); Sentieri sotto la neve (1998); Il magico "Kolobok" e altri scritti (1999); Inverni lontani (1999); Tra due guerre e altre storie (2000); 1915-1918 La guerra sugli Altipiani (2000); L'ultima partita a carte (2002); Storie dall'Altipiano (2003); L'Altipiano delle meraviglie, con R. Costa (2004); Il sergente nella neve-Ritorno sul Don (2005); Stagioni (2008). Le sue opere sono poi state raccolte in un volume dei Meridiani Mondadori




PER MARIO RIGONI STERN PUBBLICHIAMO UN RICORDO DELLO SCRITTORE DEL NOSTRO AMICO PASQUALE GERARDO SANTELLA CHE L'HA CONOSCIUTO E CHE HA PUBBLICATO TEMPO FA UN'INTERVISTA




L’ultimo giorno di primavera
Ricordo dello scrittore Mario Rigoni Stern, recentemente scomparso



Una cartolina illustrata: sfondo completamente nero, puntini bianchi disseminati sulla superficie, al centro una massa informe di colore rosa dai contorni sfumati: è, come si legge sulla didascalia sul retro, la foto della nebulosa gassosa Messier 17 nel Sagittario. Me la inviò nell’ottobre scorso lo scrittore asiaghese Mario Rigoni Stern: nello spazio bianco, a sinistra dell’indirizzo, una frase: “...noi siamo tra le stelle, tutti...”, firmato Il sergente nella neve, come il titolo del suo romanzo (autobiografico) più famoso. La cartolina era inserita in una busta assieme ad un breve scritto che mi piace riportare: “Asiago, 18 ottobre 2007. Caro Gerardo, ti ringrazio del tuo ricordo estivo e della tua visita quassù (14 luglio 2007) e del tuo articolo (si riferiva alla conversazione pubblicata sulla pagina culturale del Pappagallo, che gli avevo inviato) e del tuo curioso libro (il mio Nomme e stuorte nomme, che lo aveva molto divertito). Qui già cominciano le brine e al mattino scendiamo sotto zero; è la stagione del lavoro e della lettura. Io però ho rallentato il ritmo e lavorare stanca un po’. Salutami la tua bella terra e ti sia bello l’autunno e buona la salute, Mario”. Mario se ne è andato, a ottantasette anni, il 16 giugno scorso. Era consapevole della fine vicina. “No go paura de morir” aveva detto ad un amico giornalista che era andato a fargli visita qualche mese prima e aveva aggiunto: “Mi raccomando, non voglio pagliacciate ufficiali e che si sappia una settimana dopo”. Volontà rispettata dai familiari, che hanno diffuso la notizia soltanto a funerali avvenuti.
Avevo conosciuto lo scrittore nel 1971, nel mio primo anno di insegnamento, a Bassano del Grappa, in un incontro con studenti di una scuola media che avevano letto Il sergente nella neve, il libro di lettura più diffuso delle scuole venete. Da allora occasionali incontri e corrispondenze. Ma con Mario non c’era bisogno di vedersi o scriversi per dialogare; erano i suoi libri (che ho letto tutti) lo spazio dell’ascolto, dell’incontro e del dialogo. Dall’esperienza della campagna in Russia nella seconda guerra mondiale, dalla prigionia in un campo di lavoro in Polonia, dal suo ritorno a casa a piedi, viaggiando di notte e nutrendosi dei frutti del bosco, erano nate le sue storie di guerra: La storia di Toenle, L’anno della vittoria, Le stagioni di Giacomo, Quota Albania. Racconti ai quali si alternano quelli ambientati sull’altopiano di Asiago: Il bosco degli urogalli; Uomini, boschi e api e soprattutto l’ultimo Le stagioni, un canto alla lettura ciclica del tempo, affine nello schema alle Georgiche di Virgilio. Era l’inverno la sua stagione preferita, il tempo della memoria della scrittura, del racconto, ma, diceva : "La primavera è la stagione giusta per partire, perchè sai che la vita continua”. Se ne è andato proprio negli ultimi giorni di primavera. Ora è fra le stelle o, chissà, è diventato bosco lui stesso, confondendosi tra gli alberi e gli animali del suo altopiano. Ma basterà aprire un suo libro e leggerne qualche pagina ...



Pasquale Gerardo Santella

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da sinistra: Pasquale Gerardo Santella e Mario Rigoni Stern in casa dello scrittore


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