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giovedì 31 agosto 2017

CESARE PAVESE - Ricordi di un lettore

Il 27 agosto 1950 Cesare Pavese viene ritrovato suicida in  una camera dell'albergo Roma, in piazza Carlo Felice, a Torino. Nella prima pagina del suo libro da lui più amato, e più difficile, i Dialoghi con Leucò del 1947, ha lasciato un biglietto divenuto celebre: "Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi". Nelle pagine interne un altro biglietto, con altre tre frasi: una citazione dai Dialoghi, "L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d'immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia"; una dal proprio diario, "Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti"; e infine a concludere, socraticamente, "Ho cercato me stesso". Un gesto preannunciato già nel diario stesso, pubblicato nel 1952 (e che lessi nell'inverno 1981-82), con il titolo Il mestiere di vivere, alla data del 17 e del 18 agosto 1950: "Questo il consuntivo dell'anno non finito, che non finirò"; "Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più". Ultimissime parole del diario. E che utilizzai allora per chiudere un mio taccuino, indicando non la volontà di farla finita ma di girare - radicalmente - una pagina nella mia vita; anzi, chiudere un libro. E aprirne un altro.
Dunque, c'era di che farne un mito, di Pavese, e come a un mito negli anni adolescenziali mi accostai alla sua scrittura, mitizzando però più la scrittura che quel gesto, dai quali (scrittura e gesto) mi separavano ancora pochi anni. Pochi anni, quattordici, che sembravano tanti, quando la propria età, quindici anni e mezzo, superava di poco quell'intervallo. Il primo gennaio del 1974, in una fervida giornata di lettura, divoravo le poesie di Lavorare stanca, primo libro pubblicato da Pavese per Solaria di Firenze nel 1936 e poi riedito da Einaudi nel 1943 con l'aggiunta di nuove poesie (a Siracusa, intorno al 2007, dovevo trovare, nella mia terza o quarta vita, un'enoteca intestata a "Solaria", non solo per il sole di Sicilia, quanto e soprattutto per la rivista-editrice fiorentina). E suo primo libro che leggevo, tra le prime letture "adulte". Pavese mi era venuto incontro dall'antologia di testo e dalle parole di un professore. La scuola serve anche a questo. Forse. O, almeno, serviva. 
In Lavorare stanca l'ingenuità accorta dell'adolescente veniva colpita da quella venatura dialettale che tramava una lingua fortemente letteraria, facendola tremare, vibrare, risuonare ulteriormente, accostandosi poi alle cose, luoghi e persone. Un (neo)realismo espressionista - non usavo allora questa cifra combinata ma probabilmente solo il primo dei due elementi, qui sostantivo. Un mondo - letterario e di vita - che veniva confermato dalla lettura di pochissimo successiva, compiuta dall'8 al 28 febbraio di quello stesso 1974, de La bella estate uscita per Einaudi nel 1949 con i tre romanzi brevi La bella estate, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, dal quale ultimo Antonioni avrebbe tratto il film del 1955  Le amiche, che avrei visto per la prima volta sempre nei Settanta, trasalendo al riconoscimento dell'intreccio pavesiano. Intreccio che non è intreccio: le storie di Pavese mi sembravano scorrere come nella vita, senza necessità di una trama forte, e terminare così di colpo, senza finale, come gli episodi della vita. 
Ciò che a me colpiva positivamente, veniva stigmatizzato negativamente da un altro mio autore di quegli anni giovani, Alberto Moravia. In Pavese decadente, articolo del 1954 raccolto ne L'uomo come fine nel 1963, Moravia stronca il mito di Pavese, in fondo suo concorrente benché ormai scomparso, bollando come penoso Il mestiere di vivere, da lui appena letto, e sostenendo che la letteratura più letteraria è proprio quella che vuole essere antiletteraria. E Pavese - rincara Moravia - fa parlare le persone del popolo con la sua voce di uomo colto, con un uso del dialetto non conseguente, a differenza di un Verga, per esempio. che farebbe parlare il popolo come tale. Più che andare verso le cose, per Moravia Pavese ci dà una letteratura fortemente "stilizzata" e dunque "prefabbricata". Comunque, riconosce, superiore a quella degli epigoni che utilizzano il modello prefabbricato di Pavese perché lo scrittore piemontese "era uomo di gusto e di rigore intellettuale". Rigore che non gli impedisce di scivolare nell'irrazionalismo, altro capo di imputazione adoperato dal razionale, logico e loico Moravia. Ma la razionalità moraviana non ci costruisce ugualmente romanzi e racconti a tesi, e quindi anche in questo caso "prefabbricati"? Di Pavese, come di Hemingway (futuro mio mito da lì a poco), Moravia afferma che scrivano sempre lo stesso libro. E Moravia? Ma forse non ogni scrittore riscrive sempre se stesso. Pavese poi, come il Paolini, amico di Moravia e lo stesso tentato dal dialetto (friulano, romano), darebbe rimasto fino allamorte un eterno adolescente (come qualcuno pure afferma accostando lo scrittore piemontese e il poeta bolognese-friulano).
Al di là del merito della questione, il giovane lettore incomincia a imparare una cosa. Che gli scrittori non vanno d'accordo tra loro. Che un "grande" (o che perlomeno a noi appare tale) stronca un altro "grande" (o che noi viviamo come tale). E si pone una considerazione: i giudizi sono "oggettivi" o frutto di un gusto personale? Che il gusto agisca in misura se non determinante, almeno significativa, doveva "confermarlo" molti anni dopo un Heimito von Doderer, letto tra anni Ottanta e Novanta, in un passaggio dei suoi Demoni.
Tant'è. Continuai a leggere Pavese e Moravia, consapevole del ventaglio di possibilità che la letteratura mi metteva davanti. Per di più, una cosa che Moravia nello stesso articolo rimproverava a Pavese, il passaggio dal decadentismo al comunismo, doveva "influenzare" anche me. 
Ecco come stavano le cose. Io leggevo per amore della letteratura e - posso dirlo in riferimento a un fervore adolescenziale? - per la conoscenza della vita che ritenevo passasse attraverso la letteratura (o almeno la riflessione sul vivere). Ma mi accorgo, all'inizio con fastidio, che Pavese, che Calvino (avevo letto Marcovaldo tra i due libri di Pavese) in qualche modo avevano avuto a che fare con il partito comunista. Ecco il sillogismo: a) Io amo Pavese e Calvino; b) Pavese e Calvino sono comunisti; c) ergo, non posso non essere comunista anch'io. Ma anche Moravia, e altri si aggiravano nel campo delle sinistre: lo stesso Moravia dal Pci al Psi, e poi Sciascia, Pasolini... Dalla letteratura si prende così il traghetto per la politica che per un giovane degli anni Settanta diventa pervasiva, e non più reversibile.
Ma Pavese. Ecco finalmente (14-17 giugno 1974) la lettura de La luna e i falò pubblicato da Einaudi nel 1950 e che io lessi nell'edizione Oscar Mondadori del 1974: quei volumetti che si aprivano con la foto dell'autore (e quell'ovale di Pavese doveva accompagnarmi per anni), corredati da altre foto prima del testo, da una cronologia e da una biobibliografia. L'ultimo romanzo, con forti elementi autobiografici, con quel ritorno del protagonista a Gaminella dall'America  (quell'America che Pavese aveva viaggiato con le sue traduzioni): proprio quel passo avevo letto a scuola, e quel passo mi è diventato refrain quando, scrivendo dei libri degli altri, voglio caratterizzare un "ritorno" - è vero, con il tempo si è aggiunto anche il ritorno del Wanderer Hӧlderlin come archetipo interpretativo, quale tic esegetico.
La lettura di Pavese nel corso già degli anni liceali ha sgranato diversi suoi libri, riletti ai tempi dell'università e riacquistati poi in cofanetto con una diaspora di molti dei volumi acquistati originariamente. Ad esempio, la mia prima copia de La bella estate nella seconda metà degli anni Ottanta è andata a un mio amore parzialmente ricambiato. Perduti, l'amore e il libro. Altre copie a mia sorella, tradizionale destinataria dei miei "doppioni" in un desiderio di condivisione che continua negli anni.
Due ultime cose. 
La prima. Una rilettura che urge, quella dei Dialoghi con Leucò, letti un po' più tardi, dal 22 marzo al 6 marzo 1981, ormai nell'ultimo anno di università, e non più riaperti, se non per frettolose consultazioni. Anche se del rapporto di Pavese con il mito, non solo quello greco, ho letto nel carteggio tra lo scrittore con l'etnologo napoletano Ernesto De Martino che Bollati Boringhieri ha pubblicato sotto il titolo La collana viola. Lettere 1945-1950 e a cura di Pietro Angelini: la collana viola (ovvero "Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici" edita dal 1948 al 1956), cosiddetta dal colore della copertina, è quella curata da Pavese e De Martino per Einaudi e che ha permesso di far conoscere in Italia molti classici dell'antropologia. Anche in questo scambio epistolare emerge il carattere "irrazionale" (per tornare al giudizio di Moravia) dell'approccio culturale dello scrittore piemontese. All'antropologo che vorrebbe, scientificamente, premettere alle opere da pubblicare un'introduzione che contestualizzi libri il cui contenuto è, in una certa prospettiva - quella marxista - discutibile, il poeta ribatte invece che non servono presentazioni profilattiche ma le opere devono parlare da sole. (Per non parlare poi dei molti suoi saggi ancora non letti...).
La seconda. Di Pavese ho solo letto, ma non ho scritto mai, stavo per dire: dovrei quindi farlo. Ma è parzialmente vero. Proprio de La collana viola ho scritto, in un articolo apparso nei primi anni Novanta in "Quaderni radicali" e poi ripreso in un mio libro - il primo di saggistica - del 2001.
Da quei "dintorni" ripartire... E magari da un ritorno alla casa natale di Santo Stefano Belbo, dove passai - anche lì - agli inizi dei Novanta. Ma come Anguilla che non ritrova la Gaminella che ha lasciato, perché il tempo della realtà scorre implacabile rispetto alla memoria che se si muove lo fa nel proprio stesso perimetro contingentato, così potremmo ritrovare mutato ciò che abbiamo lasciato pur provvisoriamente. E c'è comunque un "eterno ritorno del mito", come  si potrebbe dire parafrasando Mircea Eliade, uno degli autori della mitica collana viola, seppure in epoca post-pavesiana.
Il mito ha i suoi luoghi, e i suoi riti che lo rinnovano.






sabato 12 agosto 2017

Il trionfo dell'opinione

Le opinioni personali pretendono di essere verità assolute. Gli studi scientifici sarebbero solo deliri di accademici prezzolati

Ai dati di Tito Boeri dell'Inps sulle entrate che vengono dagli immigrati e che permetterebbero di pagare le pensioni agli italiani, un cardiologo di Napoli obiettava - in un mio post su fb - che gli stranieri lui li vedeva solo ai semafori a pulire i vetri, o a chiedere l'elemosina, a rubare ecc. ecc. Che veniva a contare Boeri? La massa degli immigrati era lì a non fare niente. Allora io ho risposto al medico che forse lui aveva dati che a Boeri sfuggivano. E il medico, irridendomi e insultandomi, mi risponde: "ma che dati e dati, che hai anche tu gli occhi foderati di prosciutto che non li vedi in giro gli immigrati?".
 Certo, questo è ciò che balza agli occhi. Se l'esperienza diretta è importante, la scienza, da Galilei in poi almeno, insegna che l'apparenza inganna spesso e bisogna andare oltre ciò che appare. Altrimenti saremmo ancora qui a dire che è il sole a girare. Proprio un medico irride i dati e si affida alla sola sua impressione. Le conoscenze mediche non derivano da un faticoso e lungo incrocio di dati, e dalla loro interpretazione? Come tutte le conoscenze scientifiche. Ma appunto, le conoscenze scientifiche non valgono più, gli studiosi sono solo spocchiosi intellettuali, se non addirittura al soldo di interessati committenti - il che ovviamente può accadere e accade. Ma contro la ricerca collaborativa a ogni modo risorge il primato dell'Io. Io penso, Io sento, Io voglio. Povero Bacone, che pensava già ai team di studiosi, e povero Platone (e prima Parmenide o Eraclito) che distingueva tra doxa e episteme, opinione e scienza. Sporchi intellettuali. Filosofi. Insomma: Boeri ha ragione? Non lo so. Io tendo a credere ai suoi dati, perché parla di dati da lui interpretati. Per smentirlo, dovrei avere altri dati, e saperli interpretare, e non solo la mia impressione personale.
 Poi ci sono questioni etiche, politiche su cui il pensiero personale ha pieno diritto. Qualcuno può pensare che ci voglia un argine all'invasione di immigrati perché ciò mina l'identità culturale italiana. Questa non è questione di dati. E quindi si può legittimamente dissentire. Si può dire, in questo caso: Io penso; Io invece non credo. Però, bisognerebbe anche argomentare. Ma, si sa, anche argomentare è cosa da filosofi. Dio ne scampi.
Perciò dico che si può rispondere in base ai dati, o in base all'uso dei dati, non in base a quello che io vedo per strada. Boeri non è l'ultimo degli esperti, ma può sbagliare. Ma potrebbero sbagliare anche quelli che contestano la sua interpretazione dei dati. Il problema è il confronto, superando la fase del mero insulto. Questo è il punto. Non tanto stabilire - nella fattispecie - se Boeri abbia o meno ragione. Poi, epistemologicamente, è chiaro che i dati non sono la scienza, sono la base sulla quale la scienza lavora, e può farlo bene o male. Perciò occorre, come detto, un faticoso e lungo incrocio di dati. Questo incrocio e analisi ci portano alla scienza. Senza dati esiste solo la mia opinione personale. Se i dati non sono sufficienti, da soli, figuriamoci l'impressione personale e soggettiva. Che, pur in assenza di dati - vogliamo chiamarli riscontri? - molti sbrigativamente assolutizzano, insultando chi la pensa diversamente.
Sui social tutti diventano esperti di tutto, e sulla base della propria esperienza, o di pochi dati scorsi sui social stessi, pretendono di esprimere, senza diritto di replica, la propria opinione. Era quello che Umberto Eco diceva dei nuovi saccenti da social. Per essere aggredito sui social, dai social.