Prisco De Vivo
Ad Auschwitz
Poesie 2002 - 2003
Disegni e pitture di Prisco de Vivo
Prefazione di Enzo Rega
Postfazione di Antonella Cilento
IL LABORATORIO/le edizioni, Nola (NA) 2007
con 13 poesie, 4 disegni e 6 dipinti di Prisco De Vivo
*
IN SILENZIO SULLA STRADA PER AUSCHWITZ*
Non sono mai stato ad Auschwitz, nel cuore dell’orrore, ma la sua anticamera l’ho vista. Cioè, il campo di Terezin (o Theresienstadt), a nord di Praga. Ci arrivai una mattina di febbraio, con appresso un’intera scolaresca che accompagnavo: c’erano quindici gradi sotto zero (ma comunque da quelle parti: “I raggi del sole / Non riscaldano le mani”). È rimasto un filmino, in cui i miei alunni si aggirano, imbacuccati e attoniti, tra le costruzioni in pietra di quello che era un campo di smistamento, ma dove, volendo, si poteva morire lo stesso: di stenti, di malattia, per rappresaglia: in fondo c’è ancora il muro delle fucilazioni. Terezin era il presunto campo modello, quello che i nazisti presentavano alle delegazioni straniere per dimostrare come gli internati lavorassero e riuscissero perfino a divertirsi. C’era (c’è) anche un teatro (leggiamo pure in questo libro: “A fine settimana / Inizia il concerto. / Date un’ultima occhiata / Agli spartiti. / Accordate gli strumenti. / Ci sarà dell’ottima musica, / Qui ad Auschwitz”). Una farsa, cui si metteva fine appena i visitatori se n’erano andati. Ma l’orrore non fu per farsa, neanche a Terezin.
Non ricordo se fu lì che vidi le collezioni di oggetti sottratti ai deportati che i nazisti suddividevano con cura: orologi, dentiere, scarpe. O vidi solo delle foto (o anche le foto le vidi altrove). Nei quadri di De Vivo ritornano quegli scarponi, a pesare sui volti disperati dei suoi personaggi, con la loro consistenza materica che più di tutto può dar conto della concretezza della sofferenza: anche quello dello spirito, nel momento in cui lo si prova, è un dolore concreto che diventa spasmo fisico e senso di nausea. E poi nei versi: “I piccoli Victor, Marnie / Eduard, Maria, Gustav / in fila con le loro scarpe in bocca…”; “Ripenso a quel sogno. 1200 ebrei nudi / Con le scarpe al collo / E gli assordanti passi dei soldati” (e segue, nel testo, una danse macabre). Anche l’anima che soffre è di carne, e allora non si può non parlare di “corpi rosa” brutalmente trascinati, di “corpi scheletrici”, del piscio della paura. E non si può, allora, non scarnificare al massimo la parola. Lasciare anch’essa, e la frase che la porta, ridotte a uno scheletro. Theodor W. Adorno si chiedeva addirittura se fosse ancora possibile la poesia dopo Auschwitz. Il rischio, poi, è che, oltre che il male, ad essere banali siano anche le nostre parole che parlano del male: e quindi ciò che possiamo dirne forse dovrebbe rasentare il silenzio – o diventare urlo dispiegato, archetipo primordiale d’ogni suono umano, pianto natale. Se non che il “tema del silenzio” è diventato vero tema ebraico, come documenta David Grossman che racconta il silenzio dei vecchi sopravvissuti ai campi, e come ricorda Francesca Sanvitale.
Non solo la poesia sembra impallidire di fronte al male assoluto, dio stesso arretra e rinuncia alla sua onnipotenza: così per Hans Jonas non può non cambiare il concetto medesimo di dio dopo Auschwitz. E qui scrive Prisco: “Dalle tante chiese, Signore, / Interrogo / l’occhio del tuo triangolo, / senza una risposta”.
Sul viale di Terezin, al ritorno, fuori di quel “campo del sangue” (per dirla con Eraldo Affinati che con Plinio Perilli ha compiuto un lento avvicinamento all’altro terribile campo di sterminio), in quella piana brulla schiacciata dal freddo, da sotto la sua sciarpa, un’alunna disse: “Grazie”. Grazie per averla condotta in quel luogo senza grazia. Aveva la stessa età la francese Louise Jacobson, strappata al suo liceo e, il 13 febbraio 1943, deportata ad Auschwitz. Così scrive, prima di partire: “Papà mio carissimo, ho una notizia triste, caro papà. Dopo la zia, tocca a me partire. Ma non fa niente. Io sono su di morale, come tutti qui del resto. Non devi amareggiarti, papà… Partiremo domani mattina”. Non sarebbe più tornata, ovviamente. Un tale Brisset firmava per il Prefetto di polizia di Parigi questo notarile documento: “Come Vi è stato notificato, la suddetta operazione [arresto di tutti gli ebrei del distretto della Senna] ha avuto luogo nella notte fra il 10 e l’11 febbraio 1943. 1549 Ebrei (adulti di entrambi i sessi e bambini) sono stati internati nel campo di Drancy [dove era già Louise, imprigionata alla fine di agosto], da dove saranno probabilmente deportati verso l’Est”. Cosa che avvenne, nonostante l’opposizione dei poliziotti francesi, per ordine di Eichmann, il “banale” uomo del male di Hannah Arendt.
Non sono mai stato ad Auschwitz, nel cuore dell’orrore, ma la sua anticamera l’ho vista. Cioè, il campo di Terezin (o Theresienstadt), a nord di Praga. Ci arrivai una mattina di febbraio, con appresso un’intera scolaresca che accompagnavo: c’erano quindici gradi sotto zero (ma comunque da quelle parti: “I raggi del sole / Non riscaldano le mani”). È rimasto un filmino, in cui i miei alunni si aggirano, imbacuccati e attoniti, tra le costruzioni in pietra di quello che era un campo di smistamento, ma dove, volendo, si poteva morire lo stesso: di stenti, di malattia, per rappresaglia: in fondo c’è ancora il muro delle fucilazioni. Terezin era il presunto campo modello, quello che i nazisti presentavano alle delegazioni straniere per dimostrare come gli internati lavorassero e riuscissero perfino a divertirsi. C’era (c’è) anche un teatro (leggiamo pure in questo libro: “A fine settimana / Inizia il concerto. / Date un’ultima occhiata / Agli spartiti. / Accordate gli strumenti. / Ci sarà dell’ottima musica, / Qui ad Auschwitz”). Una farsa, cui si metteva fine appena i visitatori se n’erano andati. Ma l’orrore non fu per farsa, neanche a Terezin.
Non ricordo se fu lì che vidi le collezioni di oggetti sottratti ai deportati che i nazisti suddividevano con cura: orologi, dentiere, scarpe. O vidi solo delle foto (o anche le foto le vidi altrove). Nei quadri di De Vivo ritornano quegli scarponi, a pesare sui volti disperati dei suoi personaggi, con la loro consistenza materica che più di tutto può dar conto della concretezza della sofferenza: anche quello dello spirito, nel momento in cui lo si prova, è un dolore concreto che diventa spasmo fisico e senso di nausea. E poi nei versi: “I piccoli Victor, Marnie / Eduard, Maria, Gustav / in fila con le loro scarpe in bocca…”; “Ripenso a quel sogno. 1200 ebrei nudi / Con le scarpe al collo / E gli assordanti passi dei soldati” (e segue, nel testo, una danse macabre). Anche l’anima che soffre è di carne, e allora non si può non parlare di “corpi rosa” brutalmente trascinati, di “corpi scheletrici”, del piscio della paura. E non si può, allora, non scarnificare al massimo la parola. Lasciare anch’essa, e la frase che la porta, ridotte a uno scheletro. Theodor W. Adorno si chiedeva addirittura se fosse ancora possibile la poesia dopo Auschwitz. Il rischio, poi, è che, oltre che il male, ad essere banali siano anche le nostre parole che parlano del male: e quindi ciò che possiamo dirne forse dovrebbe rasentare il silenzio – o diventare urlo dispiegato, archetipo primordiale d’ogni suono umano, pianto natale. Se non che il “tema del silenzio” è diventato vero tema ebraico, come documenta David Grossman che racconta il silenzio dei vecchi sopravvissuti ai campi, e come ricorda Francesca Sanvitale.
Non solo la poesia sembra impallidire di fronte al male assoluto, dio stesso arretra e rinuncia alla sua onnipotenza: così per Hans Jonas non può non cambiare il concetto medesimo di dio dopo Auschwitz. E qui scrive Prisco: “Dalle tante chiese, Signore, / Interrogo / l’occhio del tuo triangolo, / senza una risposta”.
Sul viale di Terezin, al ritorno, fuori di quel “campo del sangue” (per dirla con Eraldo Affinati che con Plinio Perilli ha compiuto un lento avvicinamento all’altro terribile campo di sterminio), in quella piana brulla schiacciata dal freddo, da sotto la sua sciarpa, un’alunna disse: “Grazie”. Grazie per averla condotta in quel luogo senza grazia. Aveva la stessa età la francese Louise Jacobson, strappata al suo liceo e, il 13 febbraio 1943, deportata ad Auschwitz. Così scrive, prima di partire: “Papà mio carissimo, ho una notizia triste, caro papà. Dopo la zia, tocca a me partire. Ma non fa niente. Io sono su di morale, come tutti qui del resto. Non devi amareggiarti, papà… Partiremo domani mattina”. Non sarebbe più tornata, ovviamente. Un tale Brisset firmava per il Prefetto di polizia di Parigi questo notarile documento: “Come Vi è stato notificato, la suddetta operazione [arresto di tutti gli ebrei del distretto della Senna] ha avuto luogo nella notte fra il 10 e l’11 febbraio 1943. 1549 Ebrei (adulti di entrambi i sessi e bambini) sono stati internati nel campo di Drancy [dove era già Louise, imprigionata alla fine di agosto], da dove saranno probabilmente deportati verso l’Est”. Cosa che avvenne, nonostante l’opposizione dei poliziotti francesi, per ordine di Eichmann, il “banale” uomo del male di Hannah Arendt.
Enzo Rega
*Il testo fa da prefazione al volume
vedi ancora1: dipinti
vedi ancora 2: sculture
vedi ancora 3: disegni
Nessun commento:
Posta un commento