E' uscito il n. 18/maggio 2008 de "La Mosca di Milano" (Edizioni La Vita Felice) diretta da
Gabriela Fantato. Come recita il sottotitolo, la rivista realizza, trasversalmente, "intrecci di poesia, arte e filosofia", secondo un'interessante prospettiva. Ogni numero ha poi un'ampia sezione monografica a tema. In questo ci si occupa di "Desiderio e smarrimento".
Compare una mia recensione dedicata a un volume di poesie di Anna Maria Carpi che riportiamo qui:
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Anna Maria Carpi, Compagni corpi. Poesie 1990-2002, Scheiwiller, 2004
Prima di occuparci del nuovo libro di poesia di Anna Maria Carpi – germanista, traduttrice e narratrice – uscito per Scheiwiller nel 2007, soffermiamoci su questo bel volume che raccoglie tutta la produzione precedente (A morte Talleyrand, Compagni corpi e Di media taglia, occhi marrone), le cui tematiche di fondo l’opera nuova riprende e approfondisce. La poesia della Carpi è mossa da un’istanza desiderativa nella quale l’autrice mette in gioco se stessa (ne va del suo esserci) nell’armonico equilibrio di elementi che le deriva dalla frequentazione di quella cultura germanica che dà alla sua scrittura una screziatura particolare. Istanza desiderativa dicevamo: «Di nuovo la mia sete/ implora, smania,/ cucciolo alla catena» (p. 178). Se fondamentale è il desiderio degli altri («anelo alla comunione», p. 176), in una tensione che fa considerare la vita altrui come epifania di un’alterità lacerante, il bisogno di far comunità, poi («Restiamo assieme», p. 125), è un far fronte alla morte nientificatrice che incombe su tutti («Chiamami niente, chiamami nessuno», p. 143), per cercare un riconoscimento eternizzante: «Ma il male vero è un altro, e non lo si vuol dire:/ dover morire/ e che nulla di nulla avesse senso» (p. 120). Per cui, seguendo il viaggio di Celan (al quale è interamente dedicata la seconda delle raccolte qui riunite), rammaricarsi di avere «una vita sola». L’insensatezza della vita di fronte alla morte non può non richiamare il Camus del dio indifferente: «Nebbia d’acqua e di fumo, / ultimo lembo della veste/ di un dio né buono né malvagio./ Dio è indifferente e viaggia senza volto/ col vento verso la terraferma/ donde anch’io vengo» (p. 140), un dio pur cercato. Quella nebbia che ritorna avvolgente e rassicurante, materna: «Cara nebbia padana, madre fitta/ sei del mattino, inverno,/ le macchine del caffé vanno in pressione/ nei primi bar aperti sul piazzale» (p. 76). Luoghi protettivi, dunque, come un grembo materno al quale regredire, non da soli ma appunto facendo comunità, come nella Stazione Centrale di Milano con cui il volume si apre (e poi “case” o “stanze” che si susseguono come luoghi d’una possibile normalità: e c’è una «porta di casa» che ci ricorda la forza evocativa de La porta della narratrice ungherese Magda Szabó, e poi una «casa d’altri» che ci riporta a Silvio D’Arzo); per chiudersi con una carrellata sui viaggiatori in un treno, in questa «terra di nessuno» che è poi magica sospensione temporale. Con la domanda finale. «Perché ci siamo?». E allora ecco la viaggiatrice con il baschetto e gli occhiali d’oro parlare parlare, come Shahrazâd, «perchè/ finché si parla non si muore,/ e morire è terribile» (p. 182). Il desiderio è desiderio di vita, è cogliere il bianco nel buio e aspettare e (ora contro Nietzsche) sperare. Che quel tubero (sinisgalliano?) sbocci.
Enzo Rega
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