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martedì 22 luglio 2008

Anna Maria Carpi: poesia

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Ripropongo qui due mie recensioni di libri di poesia di Anna Maria Carpi, pubblicati su "La Mosca di Milano", 18/maggio 2008 (Compagni corpi) e on-line, in attesa di uscita sul cartaceso, su "Sinestesie", aggiornamento di giugno 2008 (E tu fra i due chi sei). (vedi anche il mio Post dedicato alla "Mosca di Milano"/n.18


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Anna Maria Carpi, Compagni corpi. Poesie 1990-2002, Scheiwiller, 2004 , p. 189, euro 13,60

Prima di occuparci del nuovo libro di poesia di Anna Maria Carpi – germanista, traduttrice e narratrice – uscito per Scheiwiller nel 2007, soffermiamoci su questo bel volume che raccoglie tutta la produzione precedente (A morte Talleyrand, Compagni corpi e Di media taglia, occhi marrone), le cui tematiche di fondo l’opera nuova riprende e approfondisce. La poesia della Carpi è mossa da un’istanza desiderativa nella quale l’autrice mette in gioco se stessa (ne va del suo esserci) nell’armonico equilibrio di elementi che le deriva dalla frequentazione di quella cultura germanica che dà alla sua scrittura una screziatura particolare. Istanza desiderativa dicevamo: «Di nuovo la mia sete/ implora, smania,/ cucciolo alla catena» (p. 178). Se fondamentale è il desiderio degli altri («anelo alla comunione», p. 176), in una tensione che fa considerare la vita altrui come epifania di un’alterità lacerante, il bisogno di far comunità, poi («Restiamo assieme», p. 125), è un far fronte alla morte nientificatrice che incombe su tutti («Chiamami niente, chiamami nessuno», p. 143), per cercare un riconoscimento eternizzante: «Ma il male vero è un altro, e non lo si vuol dire:/ dover morire/ e che nulla di nulla avesse senso» (p. 120). Per cui, seguendo il viaggio di Celan (al quale è interamente dedicata la seconda delle raccolte qui riunite), rammaricarsi di avere «una vita sola». L’insensatezza della vita di fronte alla morte non può non richiamare il Camus del dio indifferente: «Nebbia d’acqua e di fumo, / ultimo lembo della veste/ di un dio né buono né malvagio./ Dio è indifferente e viaggia senza volto/ col vento verso la terraferma/ donde anch’io vengo» (p. 140), un dio pur cercato. Quella nebbia che ritorna avvolgente e rassicurante, materna: «Cara nebbia padana, madre fitta/ sei del mattino, inverno,/ le macchine del caffé vanno in pressione/ nei primi bar aperti sul piazzale» (p. 76). Luoghi protettivi, dunque, come un grembo materno al quale regredire, non da soli ma appunto facendo comunità, come nella Stazione Centrale di Milano con cui il volume si apre (e poi “case” o “stanze” che si susseguono come luoghi d’una possibile normalità: e c’è una «porta di casa» che ci ricorda la forza evocativa de La porta della narratrice ungherese Magda Szabó, e poi una «casa d’altri» che ci riporta a Silvio D’Arzo); per chiudersi con una carrellata sui viaggiatori in un treno, in questa «terra di nessuno» che è poi magica sospensione temporale. Con la domanda finale. «Perché ci siamo?». E allora ecco la viaggiatrice con il baschetto e gli occhiali d’oro parlare parlare, come Shahrazâd, «perchè/ finché si parla non si muore,/ e morire è terribile» (p. 182). Il desiderio è desiderio di vita, è cogliere il bianco nel buio e aspettare e (ora contro Nietzsche) sperare. Che quel tubero (sinisgalliano?) sbocci.
Enzo Rega
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Anna Maria Carpi, E tu fra i due chi sei, Libri Scheiwiller, Milano 2007, pp. 82, euro 11,00

Con la nuova raccolta di poesia, Anna Maria Carpi, elbano-emiliano-irlandese che vive a Milano e insegna all’Università di Venezia, approfondisce il discorso del volume precedente, Compagni corpi, pubblicato dallo stesso editore. La sua interrogazione investe la questione più cruciale, quella della vita e della morte, con la radicalità del cinema di un Bergman o della narrativa di un’Alba de Céspedes (cfr. Nel buio della notte). E su tutto l’affermazione di Heidegger: “essere presenti significa tenersi fermi nel nulla”; anche se punto di riferimento della Carpi è piuttosto quel Nietzsche del quale ha tradotto le poesie e del quale qui ricorda la concezione dell’eterno ritorno: “E se poi ci fosse, / come voleva quel pagano Nietzsche, il ripetersi eterno dell’identico, / tempo a spirale, senza senso e dio, / nel meriggio furente, / nella notte dei tempi?” (pp. 70-71). Il tempo e dio: questioni cruciali. “Al tempo chi ci crede? Per me non può passare. Io sono un’eccezione” (p. 25; perciò il lago come acqua che ristà apparentemente su se stessa, anche se poi la felicità sembra a un certo punto affidata a una nave che in alto mare affronta la curvatura della terra). Ed ecco dei passeggeri anonimi in viaggio, sulle cui vite, per un momento ammassate in uno scompartimento, interrogarsi: “Ora fa buio e sarà buio un pezzo / e lungo il viaggio, il tempo / per contemplare gli altri / che non sanno di me né io di loro…” (p. 13); e con i quali si vorrebbe restare, perché: “Solo un viaggio comune è senza fine” (p. 14). Come spesso, è dalla banalità del quotidiano, minimalisticamente colto (con qualcosa della narrazione annichilita di un Carver), che emergono le questioni fondamentali, per uno scatto finale che può ricordare la torsione delle massime di La Rochefoucauld. Dall’ingorgo di gente davanti a un bar o dalle orde nel metrò (sempre questo stringersi insieme di “compagni corpi”) si è spinti a chiedersi: “figli di Dio o materia / per la scienza e la morte? (p. 18). Quindi, dio. Non tanto il dio che faccia giustizia sulla terra. Anche quello: “Certo, sarebbe bene che Dio fosse – / per far giustizia: grida / vendetta quello che succede / ogni giorno nel mondo” (p. 70). Ma la verità cercata ha valenza ontologica, a garanzia del nostro stesso essere, della perpetuazione del nostro esserci (non qui e ora, ma per sempre): “Io lo so bene a che mi serve Dio / […] / e mi assicuri: / in qualche forma ci sarai per sempre. / Io non domando quale” (p. 54). Anche se questa forma qualunque non soddisfaceva gli anziani della de Céspedes, legati ai loro quotidiani gesti. E forse nemmeno la Carpi che nel poemetto finale fa dire al protagonista in punto di morte: “Ditegli che non stiano a commemorami, / non val la pena, perché io sono e resto / dov’ero, in casa, nella stanza accanto” (p. 78). È difficile per il nostro “io” considerare la propria carne come “un altro”.

Enzo Rega

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