Luigi Pirandello
(Girgenti, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936)
Era l'anno scolastico 1972-73, quarta ginnasiale (ovvero, primo anno del liceo classico). Entra in classe un professore di lettere, il responsabile della Biblioteca scolastica. Regge come può un certo numero di libri, che posa sulla cattedra dopo aver salutato il collega. (Era quell'aula a piano terra, nel cortile del Comune, senza riscaldamento). Il prof. non ha il tempo di invitare a prendere in prestito un volume da leggere, che in tanti scattano e si accaparrano i pochi disponibili. Io rimango senza, ma in seconda o terza battuta posso usufruire del libro conquistato da uno dei compagni a me più vicini: un volumetto giallino della PBM, la Piccola Biblioteca Mondadori, che raccoglie Vestire gli ignudi (1922) e L'uomo dal fiore in bocca (1922) di Luigi Pirandello. Il mio primo incontro con lo scrittore siciliano, e uno dei primi libri "da grande" che leggo, tanto che non compare nemmeno nell'elenco dei "Libri letti", che inizia l'11 giugno 1973 con un libro di Sciascia.
Pirandello è dunque per me il capostipite dei tanti scrittori che seguiranno, e un autore centrale nella mia formazione anche se - a differenza di altri - non ne leggerò tantissimi libri, almeno non concentrati in periodi particolari. Eppure, lui e la sua concezione - il suo "relativismo" psicologico e gnoseologico - saranno per me riferimento continuo. All'esame di maturità scelgo la traccia che lo riguarda e che posso svolgere solo perchè avevo letto già suoi libri: il nostro programma di italiano non era arrivato fino a lui, e si era fermato a un altro siciano, il catanese Giovanni Verga, scelto invece da me come argomento "a piacere" per l'inizio del colloquio orale. La mia maturità - la maturità di un napoletano nato a Genova - si gioca sul terreno della Sicilia - e su quello tedesco per il colloquio di filosofia, tra Kant ed Hegel e alcuni "minori".
Ma Pirandello. Forse al ginnasio ne avevamo letto comunque qualche brano antologico: non posso più affermarlo con sicurezza, forse da Il fu Mattia Pascal del 1904. Anzi, di sicuro ne avevo letto io almeno, per conto mio, un brano da questo suo più celebre romanzo grazie all'antologia del biennio Best-sellers del 900 (Giuseppe Galleno, Sansoni 1972), che corredava i passi con una nota introduttiva generale e per le pagine proposte. Da qui veniva dunque una mia conoscenza dell'autore. Ma ora che scrivo si arpionano i ricordi e mi pare di sentire le parole - pur non dintinguendole adesso nella mente, non cogliendone cioè il contenuto - con le quali ci commentava il brano il professore di lettere che ci avrebbe parlato di Moravia, Pavese e chissà di quant'altri. Ed ecco allora la lettura integrale del Fu Mattia Pascal, tra il 4 e l'11 giugno 1974. Il volume l'aveva acquistato mio padre su mia richiesta, credo insieme a Il castello di Kafka. Mio padre borbottava quando gli chiedevo di comprarmi dei libri, ma questa volta ne aveva presi ben due dalla lista che gli avevo dato: "costavano poco", mi aveva detto. Erano edizioni Oscar Mondadori: quei volumetti con cospicui apparati introduttivi e con una piccola antologia della critica. Da qui mi si squadernava davanti l'emblematica visione pirandelliana della realtà, questo gioco di specchi tra coscienze che si appannano tra loro nella reciproca incomunicabilità, rendendo sfuggente la comprensione stessa del mondo; la crisi dell'io; l'ipocrisia della propria recita di fronte alla naschera imposta dalle convenzioni sociali. Un connubio tra psicologia e sociologia; e - accanto a letteratura e filosofia - i nomi di queste discipline baluginavano davanti agli occhi già miopi dello studente ginnasiale. Non voglio qui ridurre a psicologismo o sociologismo il pirandellismo per non suscitare ire di pirandellisti. In quei primi anni Settanta il letterario veniva percepito attraverso il sociale o evocava rimandi al sociale. Ma non è di questo che voglio parlare ora. Senza dubbio, invece, il pirandellismo mi s'imponeva come una verità della non-verità dell'umano.
E la triade Uno, nessuno e centomila mi s'imponeva così ancora prima della lettura del romanzo del 1926 fatta più tardivamente, dal 27 febbraio all'11 marzo 1990, ormai da qualche anno insegnante nel Nord Italia. Mi sorprendeva allora l'andamento più saggistico-filosofico che prettamente narrativo del romanzo, più apertamente "a tesi" - tesi che appunto avevo conosciuto nell'apprendistato pirandelliano che, in quanto a lettura, aveva annoverato nel frattempo anche i tre drammi Il berretto a sonagli, La giara e Il piacere dell'onestà letti nel gennaio 1981, in piena università: tre testi diversi tra loro ma tutti del 1917 e raccolti in un unico Oscar Mondadori, il cui apparato introduttivo doveva dare altro materiale conoscitivo, seppure in sintesi, sullo scrittore e drammaturgo siciliano. La giara, di sicuro, l'ho letta anche in forma di racconto - non posso più dire se prima o dopo di quel gennaio universitario.
Altri racconti, e testi teatrali, e romanzi, ho letto ancora qua e là, non più registrati, perché il mio elenco di "libri letti" si è fermato poi al 22 agosto 1994. E così non vi compaiono I quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925) letti solo in questo 2017, un ritratto del nascente mondo del cinema le cui mistificazioni ben si prestano a entrare nella carne delle tematiche pirandelliane: la finzione sulla scena che poi doveva apparire realtà allo spettatore, il meccanicismo e l'artificio come di più fornito dalla tecnologia per cui la mano di Serafino che gira la manovella e il suo occhio non sono che un dispositivo ulteriore della cinepresa, tanto che alla fine si consuma un delitto vero e uno degli attori viene sbranato dalla tigre di scena, ma Serafino continua imperterrito a muovere la mano e a riprendere: anticipazione dell'attuale società delle immagini e dei social nella quale tanti serafini-gubbi diventano solo una mano che regge lo smartphone impegnato a riprendere gli accadimenti più crudi senza che ciò che avviene davanti all'obiettivo tocchi le emozioni dell'operatore.
Il cinema nel romanzo in Pirandello, uno dei primi romanzi a parlare della settima arte anche se con un cipiglio critico. Ma ecco anche il teatro nel teatro in uno dei più celebri drammi, i Sei personaggi in cerca d'autore, la cui violenza si celebra nel confronto tra i personaggi che - nella finzione - sono i veri protagonisti saliti sulla scena a reclamare attenzione da parte del regista per la propria storia, che poi appunto rappresenteranno sé stessi perché nessuno dei veri attori si mostrerà all'altezza del compito. Teatro nel teatro, perchè, quando i sei (poi sette) personaggi irrompono sulla scena cercando il proprio autore, si stavano tenendo le prove de Il giuoco delle parti, titolo e dramma emblematico che diventa espressione proverbiale. C'è una sottotraccia popolare di Pirandello nella cultura contemporanea, probabilmente anche al di là dei lettori forti e degli aficionados veri e propri. Una fortuna popolare oltre che strettamente letteraria. Quando nell'estate 1977, dopo la maturità, mi trovai per la prima volta all'estero, per le strade di Bruxelles potei vedere manifesti che annunciavano la messa in scena di un suo testo teatrale - non ricordo più quale. Il giovane neodiplomato doveva avere un moto d'orgoglio perché quel nome nazionale - tra l'altro protagonista della proria performance scritta agli esami appena conclusi - veniva proposto con grande rilievo nelle strade di un altro Paese.
Ma i Sei personaggi dicevo: inizialmente non letto, ma visto alla televisione in bianco e nero degli anni Settanta, in quella prosa del venerdì allora offerta da uno dei due canali nazionali. Forse anche qualche altro dramma pirandelliano potei vedere allora in televisione, ma vatti più a ricordare quale.
Un forte impatto doveva avere anche il Kaos (1984) dei Taviani visto al cinema al momento della sua uscita e che proponeva sei novelle di Pirandello (due racchiuse e ricucite in un solo episodio). E solo pochi anni fa ne dovevo vedere la continuazione, quel Tu ridi (1998) che ha avuto meno risonanza. A ridosso di questa visione mi sono anadato a leggere, o rileggere, tutti i racconti utilizzati dai fratelli Taviani, ripescandoli nei volumi delle Novelle per un anno. A proposito di cinema, relativamente recente è stata la visione del film Le due vite di Mattia Pascal che Mario Monicelli ha tratto nel 1985 dal romanzo di Pirandello con Marcello Mastroianni nella parte di Mattia Pascal che diventa adriano Meis. Ecco, ora che digito anche il nome che Pascal assume pensando di poter inventarsi con il nome una nuova vita, mi diventa più chiaro e distinto nella mente il ricordo di quando studiammo il brano o i brani dell'opera a scuola: l'impossibilità di esistere davvero in un altro modo e in altro mondo, ridotto a fantasma senza consistenza anagrafica: Adriano Meis non può sposarsi perché non esiste, così come non esiste il Fauchelevent che vuole far sposare la figlia adottiva Cosette, perché Fauchelevent altri non è che la controfigura del Jean Valjean de I miserabili di Hugo. Ecco, ora ricordo - scrivendo - il momento in cui, in classe, leggiamo (qualcuno legge e altri ascoltano) della messa in scena del suicidio di Adriano Meis che lascia cappello, bastone e un biglietto sul muretto di un ponte romano. E ritornato al suo paese non pèuò neanche più riassumere la propria identità e riprendersi la moglie che ora sta con un altro. Non può che essere il fu Mattia Pascal che fa visita alla propria tomba.
Rimane un cruccio. Quel I vecchi e i giovani cominciato e lasciato per strada, nonostante certe affinità con L'imperio di Federico De Roberto, e la politica postunitaria che mi interessavano proprio quando avevo intrapreso la lettura del libro che Pirandello aveva pubblicato nel 1913.
Ma rimedierò.
Così come bisognerà rileggere L'umorismo del 1908. Di cui qui non parlo, perchè questo non è un saggio su Pirandello - non potrei scriverlo - (però non resisto alla tentazione di verificarne la data e segnarla), ma la rivisitazione del mio incontro, dei miei incontri con lui, con un pezzo di storia della letteratura italiana, con un frammento prismatico di realtà.
Ma posso aggiungere un ulteriore ricordo, che m'era sfuggito? Seconda metà anni Ottanta, corte del castello Lancelloti di Lauro, in bassa Irpinia. Il compianto Bruno Cirino rappresenta Liolà, il dramma del 1916 che fa da congiunzione tra il primo teatro siciliano e la fase più matura. Un'esperienza indimenticabile, con Cirino, che però stavo dimenticando...
Enzo Rega
E la triade Uno, nessuno e centomila mi s'imponeva così ancora prima della lettura del romanzo del 1926 fatta più tardivamente, dal 27 febbraio all'11 marzo 1990, ormai da qualche anno insegnante nel Nord Italia. Mi sorprendeva allora l'andamento più saggistico-filosofico che prettamente narrativo del romanzo, più apertamente "a tesi" - tesi che appunto avevo conosciuto nell'apprendistato pirandelliano che, in quanto a lettura, aveva annoverato nel frattempo anche i tre drammi Il berretto a sonagli, La giara e Il piacere dell'onestà letti nel gennaio 1981, in piena università: tre testi diversi tra loro ma tutti del 1917 e raccolti in un unico Oscar Mondadori, il cui apparato introduttivo doveva dare altro materiale conoscitivo, seppure in sintesi, sullo scrittore e drammaturgo siciliano. La giara, di sicuro, l'ho letta anche in forma di racconto - non posso più dire se prima o dopo di quel gennaio universitario.
Altri racconti, e testi teatrali, e romanzi, ho letto ancora qua e là, non più registrati, perché il mio elenco di "libri letti" si è fermato poi al 22 agosto 1994. E così non vi compaiono I quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925) letti solo in questo 2017, un ritratto del nascente mondo del cinema le cui mistificazioni ben si prestano a entrare nella carne delle tematiche pirandelliane: la finzione sulla scena che poi doveva apparire realtà allo spettatore, il meccanicismo e l'artificio come di più fornito dalla tecnologia per cui la mano di Serafino che gira la manovella e il suo occhio non sono che un dispositivo ulteriore della cinepresa, tanto che alla fine si consuma un delitto vero e uno degli attori viene sbranato dalla tigre di scena, ma Serafino continua imperterrito a muovere la mano e a riprendere: anticipazione dell'attuale società delle immagini e dei social nella quale tanti serafini-gubbi diventano solo una mano che regge lo smartphone impegnato a riprendere gli accadimenti più crudi senza che ciò che avviene davanti all'obiettivo tocchi le emozioni dell'operatore.
Il cinema nel romanzo in Pirandello, uno dei primi romanzi a parlare della settima arte anche se con un cipiglio critico. Ma ecco anche il teatro nel teatro in uno dei più celebri drammi, i Sei personaggi in cerca d'autore, la cui violenza si celebra nel confronto tra i personaggi che - nella finzione - sono i veri protagonisti saliti sulla scena a reclamare attenzione da parte del regista per la propria storia, che poi appunto rappresenteranno sé stessi perché nessuno dei veri attori si mostrerà all'altezza del compito. Teatro nel teatro, perchè, quando i sei (poi sette) personaggi irrompono sulla scena cercando il proprio autore, si stavano tenendo le prove de Il giuoco delle parti, titolo e dramma emblematico che diventa espressione proverbiale. C'è una sottotraccia popolare di Pirandello nella cultura contemporanea, probabilmente anche al di là dei lettori forti e degli aficionados veri e propri. Una fortuna popolare oltre che strettamente letteraria. Quando nell'estate 1977, dopo la maturità, mi trovai per la prima volta all'estero, per le strade di Bruxelles potei vedere manifesti che annunciavano la messa in scena di un suo testo teatrale - non ricordo più quale. Il giovane neodiplomato doveva avere un moto d'orgoglio perché quel nome nazionale - tra l'altro protagonista della proria performance scritta agli esami appena conclusi - veniva proposto con grande rilievo nelle strade di un altro Paese.
Ma i Sei personaggi dicevo: inizialmente non letto, ma visto alla televisione in bianco e nero degli anni Settanta, in quella prosa del venerdì allora offerta da uno dei due canali nazionali. Forse anche qualche altro dramma pirandelliano potei vedere allora in televisione, ma vatti più a ricordare quale.
Un forte impatto doveva avere anche il Kaos (1984) dei Taviani visto al cinema al momento della sua uscita e che proponeva sei novelle di Pirandello (due racchiuse e ricucite in un solo episodio). E solo pochi anni fa ne dovevo vedere la continuazione, quel Tu ridi (1998) che ha avuto meno risonanza. A ridosso di questa visione mi sono anadato a leggere, o rileggere, tutti i racconti utilizzati dai fratelli Taviani, ripescandoli nei volumi delle Novelle per un anno. A proposito di cinema, relativamente recente è stata la visione del film Le due vite di Mattia Pascal che Mario Monicelli ha tratto nel 1985 dal romanzo di Pirandello con Marcello Mastroianni nella parte di Mattia Pascal che diventa adriano Meis. Ecco, ora che digito anche il nome che Pascal assume pensando di poter inventarsi con il nome una nuova vita, mi diventa più chiaro e distinto nella mente il ricordo di quando studiammo il brano o i brani dell'opera a scuola: l'impossibilità di esistere davvero in un altro modo e in altro mondo, ridotto a fantasma senza consistenza anagrafica: Adriano Meis non può sposarsi perché non esiste, così come non esiste il Fauchelevent che vuole far sposare la figlia adottiva Cosette, perché Fauchelevent altri non è che la controfigura del Jean Valjean de I miserabili di Hugo. Ecco, ora ricordo - scrivendo - il momento in cui, in classe, leggiamo (qualcuno legge e altri ascoltano) della messa in scena del suicidio di Adriano Meis che lascia cappello, bastone e un biglietto sul muretto di un ponte romano. E ritornato al suo paese non pèuò neanche più riassumere la propria identità e riprendersi la moglie che ora sta con un altro. Non può che essere il fu Mattia Pascal che fa visita alla propria tomba.
Rimane un cruccio. Quel I vecchi e i giovani cominciato e lasciato per strada, nonostante certe affinità con L'imperio di Federico De Roberto, e la politica postunitaria che mi interessavano proprio quando avevo intrapreso la lettura del libro che Pirandello aveva pubblicato nel 1913.
Ma rimedierò.
Così come bisognerà rileggere L'umorismo del 1908. Di cui qui non parlo, perchè questo non è un saggio su Pirandello - non potrei scriverlo - (però non resisto alla tentazione di verificarne la data e segnarla), ma la rivisitazione del mio incontro, dei miei incontri con lui, con un pezzo di storia della letteratura italiana, con un frammento prismatico di realtà.
Ma posso aggiungere un ulteriore ricordo, che m'era sfuggito? Seconda metà anni Ottanta, corte del castello Lancelloti di Lauro, in bassa Irpinia. Il compianto Bruno Cirino rappresenta Liolà, il dramma del 1916 che fa da congiunzione tra il primo teatro siciliano e la fase più matura. Un'esperienza indimenticabile, con Cirino, che però stavo dimenticando...
Enzo Rega
2 commenti:
Ho letto con attenzione e ammirazione.
Complimenti!
GRAZIE PER LA SUA LETTURA!
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