Italo Calvino faceva parte del mio Quintetto italiano, cioè dei primi cinque autori da "grande" a cui mi sono accostato al ginnasio: Italo Calvino, Cesare Pavese, Leonardo Sciascia, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini. Quattro di questi erano negli anni Settanta in piena attività, e si potevano seguire anche i loro interventi sui giornali del tempo. Allora, le voci degli scrittori erano importanti nel dibattito pubblico, e più autorevoli dei tanti che ora starnazzano sui social. Con Quintetto italiano (denominazione che mi è venuta solo ora per i miei scrittori preferiti del tempo) mi riferisco agli autori contemporanei. Poi c'era il Trio italiano dei classici contemporanei: Pirandello, Verga e Svevo.
Il Quintetto non esauriva gli italiani contemporanei ai cui libri mi rivolgevo, ma senza dubbio ne rappresentava allora l'avanguardia. Calvino dunque. Forse era uno dei primi che avevo conosciuto, almeno attraverso l'antologia scolastica (come d'altronde gli altri nomi). Luna e Gnac, racconto tratto da Marcovaldo (un libro del 1963), l'avevamo letto in classe, e doveva allora coinvolgermi in chiave ecologista la vicenda di Marcovaldo e dei suoi figli ai quali era concesso di vedere dalla loro terrazza il cielo e la luna per soli venti secondi nel lampeggiamento intermittente di un'insegna pubblicitaria: di Spaak-Cognac erano visibili solo le ultime quattro lettere. Il libro per intero lo lessi dal 2 al 7 febbraio 1974, a metà anno di distanza dai primi di Sciascia che avevo letto (Il giorno della civetta e Il mare colore del vino) e tra i due di Pavese (Lavorare stanca, divorato in un giorno solo il 1° gennaio 1974, seduto in una poltrona che è a due passi dal posto in cui sto scrivendo adesso, e La bella estate, al quale l'hanno scorso ho finalmente dedicato un saggetto d'insieme sulla trilogia). Ma Marcovaldo era una vecchia amicizia: nel 1970 avevo visto lo sceneggiato con Nanni Loy trasmesso in sei puntate su Rai 2. Scorci di ricordo in bianco e nero riemergono da quelle visioni, ma non so se attribuirle allo sceneggiato o alla lettura del libro: i figli di Marcovaldo che, dovendo fare un regalo per le festività natalizie a un bambino povero come raccomandato dal loro maestro, lo fanno al figlio del capufficio molto più benestante, perché, in una visita a casa su, l'hanno trovato triste. L'altro ricordo, questo sicuramente desunto dalla lettura, riguarda uno dei personaggi che dall'alto precipita su una spiaggia, sicuro di non bagnarsi perché il tratto di mare del lido è talmente affollato che non c'è rischio di cadere in acqua. Marcovaldo dunque non è dissociabile da Nanni Loy che lo interpretava, anche se dal 1970 a oggi non ho più visto lo sceneggiato, se non forse qualche frammento riproposto talvolta in tv (ma non ne sono sicuro).
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Nanni Loy nello sceneggiato Rai "Marcovaldo" andato in onda nel 1970
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Era quello dunque il primo impatto con il grado zero della scrittura di Calvino, una scrittura che rimane essenziale anche quando approda alle sperimentazioni degli anni Ottanta. E, paradossalmente, il successivo appuntamento con un libro di uno dei miei scrittori preferiti - che tuttavia seguivo come personaggio pubblico - doveva arrivare solo nel novembre-dicembre 1984 con Se una notte d'inverno un viaggiatore, uscito in realtà già nel 1979. Ma in occasione della pubblicazione di Palomar nel 1983, con l'amico Michele Ranieri avevamo acquistato uno a testa questi libri (io, Se una notte) per scambiarceli. Calvino era andato avvicinandosi all'OULIPO e un romanzo "telescopico" e combinatorio come Se una notte ne è espressione: giocato sull'invenzione di un libro rilegato male, per cui si susseguono, alternandosi, gruppi di pagine appartenenti a libri diversi, ripropone, nell'intenzione di Calvino stesso, la tecnica d'assemblaggio delle Mille e una notte. In fondo, la scrittura letteraria e il romanzo sono nati "sperimentali", se all'origine dello stesso romanzo borghese moderno ci sono il Don Chisciotte e il Tristram Shandy.
Per un under 30 qual ero allora, per un giovane ventiseienne degli anni Ottanta che ancora respirava l'atmosfera della neoavanguardia, un "antiromanzo" come quello di Calvino (che andava avanti guardando indietro, se il modello erano le Mille e una notte) era certo lettura stimolante, come lo fu Palomar, letto, nonostante rientrasse nello scambio con Michele Ranieri, solo un anno dopo, tra il settembre e l'ottobre del 1985. Qui il connubio letteratura-scienza, proprio dell'OULIPO, e già sperimentato da Calvino nelle Cosmicomiche, la cui lettura avrei affrontato solo dopo, tornando a ritroso nella sua produzione, si ripresenta prepotentemente (nel decennio bergamasco deglianni Novanta al Teatro Dinizetti avrei visto una riduzione dalla Cosmicomiche, rappresentazione di cui purtroppo ricordo poco) .Un paginone di Le Monde degli anni Ottanta, dedicato alla (allora) nuova filosofia italiana, accanto ai libri dei filosofi "professionisti" come Vattimo e Cacciari, cita anche Palomar e Il nome della rosa di Eco, romanzo che aveva appena cominciato la propria carriera di best-seller e long-seller: Eco, al quale si deve tra l'altro la traduzione e riscrittura degli Esercizi di stile di Queneau, tra i maggiori rappresentanti dell'OULIPO. I francesi, dopo aver dominato la scena filosofica europea e internazionale, s'inchinavano alla nuova filosofia italiana, lanciata "all'assalto di piccole verità" (come titolava più o meno l'articolo), tramontato il tempo delle grandi narrazioni nelle quali s'era impegnata ancora la modernità che ormai cedeva il posto alla postmodernità e al postmodernismo (categorie anche queste, letteralmente, del secolo scorso).
Paradossalmente, ci vogliono ancora alcuni anni perché io riprendessi - ormai scomparso lo scrittore - la lettura dei suoi libri, che man mano diventerà sistematica, inseguendolo nelle ristampe Garzanti e Oscar Mondadori. Ancora Einaudi è l'edizione de Le città invisibili, libro del 1973 (la cui struttura a sua volta può ricordare quella delle Mille e una notte) che leggo nel 1988, e le cui suggestioni sono alla base dei racconti del mio libro La linea dei passi, che vado scrivendo tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Novanta per pubblicarlo soltanto alla fine del 2019. L'osservazione che Kublai Khan fa, nel libro calviniano, a Marco Polo diventa mia nei lavori in corso del mio libro il cui sottotitolo è Prose sulle città e il viaggio e nel quale compare un pezzo che è una riscrittura di un collage di passi dal libro di Calvino: se a Marco Polo viene fatto notare che tutte le città che visita e di cui parla sembrano alla fine essere tutte simili a Venezia, a me viene fatto di notare - nel mio piccolo - che con i luoghi che visito, e di cui trasfigurandoli scrivo, torno in fondo a Genova, città in cui sono nato e che costituisce la mia origine geografica (anche se il sangue è campano), origine alla quale heideggerianamente (filosofo che ora amo molto meno di allora, eppure mi ci sono laureato) si vorrebbe tornare in quanto inizio che contiene in sé non ancora declinate tutte le possibilità.
Al 1991, tra febbraio e marzo, risale la lettura - di seguito - della trilogia I nostri antenati: Il visconte dimezzato (1952), terzo libro pubblicato da Calvino, Il barone rampante (1957) e Il visconte dimezzato (1959), acquisiti nella riedizione Garzanti Anche questi credo di averli letti in simultanea con l'amico Ranieri. Il barone rampante, insieme a Marcovaldo, ha avuto la sorte di diventare anche un best-seller per ragazzi e nelle scuole. In un raccordo temporale, leggendo e recensendo quest'anno un libro dedicato a Nico Orengo, un ligure trapiantato in Piemonte come Calvino, e come Calvino collaboratore di Einaudi, ho saputo dell'escursione fatta da Orengo e amici nei luoghi dell'ambientazione del Barone, nel Ponente ligure. Equindi, da poco, ho fatto ritorno per altre strade a Calvino e al suo mondo letterario e geografico.
- Avevo iniziato a scrivere questo ricordo qualche mese fa, o il 15 ottobre per l'anniversario della nascita avvenuta nel 1923 a Santiago de las Vegas (l'Avana), a Cuba, o il 19 settembre, anniversario invece della morte avvenuta a Siena nel 1985. (Già, a distanza di poco, la memoria non recupera con precisione il ricordo). Allora volevo scrivere di altre cose, dell'impatto delle Lezioni americane, uscite nel 1988. O della sua esperienza come presidente di giuria nella 38a Mostra del Cinema di Venzezia, che aveva come direttore artistico Carlo Lizzani mentre Presidente della Biennale era lo storico napoletano Giuseppe Galasso, con il quale avevo dato tre esami di storia moderna e avevo concordato una tesi poi slittata (per la chiusura dell'Archivio di Stato napoletano in conseguenza del terremoto) verso la cattedra di storia della filosofia moderna e contemporanea. In quell'edizione della Mostra erano stati premiati Margarethe von Trotta con Anni di piombo (Leone d'oro) e Nanni Moretti con Sogni d'oro (Leone d'argento) e fuori concorso erano stati proiettati Da un paese lontano: Giovanni Paolo II di Krzysztof Zanussi e Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino di Ulrich Edel (che anni, quegli anni!). Vi accenno soltanto, e glisso sugli altri libri calviniani letti ancora successivamente.