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venerdì 7 gennaio 2022

Dos Passos e Döblin: Ricordi di un lettore











 Sono usciti quasi negli stessi anni, "Manhattan Tranfer" nel 1925 e "Berlin Alexanderplatz" nel 1929. Due grandi città - New York e Berlino - sono le protagoniste dei due libri che per certi aspetti si somigliano: tanti punti di vista che si intrecciano, tante finestre aperte sulle due città e sulle difficoltà economiche di tanti loro abitanti; una scrittura talvolta joyciana con flussi di coscienza che attraversano le pagine. Anche se Döblin dichiarò di aver letto Joyce quando aveva già scritto un quarto del proprio libro. 

A mia volta, il libro di Dos Passos lo sto leggendo solo adesso, e nulla avevo letto finora dello scrittore americano, anche se il suo nome mi inseguiva da decenni, da quando, liceale, leggevo che Pavese ne aveva tradotto qualche libro. Il libro di Döblin, invece, lo lessi in gran parte durante il soggiorno di un mese a Berlino, subito dopo la laurea, ospite di un nipote di Heinrich (e Thomas) Mann. Era il 1984 e c'era ancora il Muro. Due volte andammo a Berlino Est. La prima volta, cercando Alexander Platz, chiedemmo indicazioni a un signore "anziano" (che forse aveva semplicemente l'età che ho io adesso): "avete letto il romanzo di Döblin!", ci disse subito. Nella plumbea Berlino Est di allora, la piazza era già diversa da quella degli anni Venti del Novecento nei quali è  ambientato il romanzo: non più una piazza circolare, cuore pulsante del quartiere nel quale a raggiera convergevano le artiere già vitali e intensamente vissute di allora, ma uno slargo squadrato a margine della strada, che ho poi rivisto una decina di anni fa nella Berlino post crollo del Muro. Comunque, allora, scendemmo nel metro della piazza, che era ancora quello nel quale si aggirava lo sventurato Franz Biberkopf. Inutile dire che nel frattempo, ma in tempi relativamente recenti, ho visto in Dvd tutte le puntate dello sceneggiato girato da Fassbinder: ma negli anni Settanta ne avevo già visto qualche puntata quando fu mandato in onda dalla Rai. 

Ho meno da raccontare in merito al romanzo di Dos Passos. Non sono mai stato a New York. Molti anni fa, quando non avevo ancora preso un aereo e avevo anche un po' paura di volare, facevo un sogno ricorrente: mi trovavo a New York e la cosa mi sembrava stupefacente; spesso ero lì per far visita al mio amico poeta che vive nella Grande Mela insegnando Letteratura italiana in una Università statale.

domenica 29 novembre 2020

Ricordi di un lettore: Italo Calvino

di ENZO REGA

 




   Italo Calvino faceva parte del mio Quintetto italiano, cioè dei primi cinque autori da "grande" a cui mi sono accostato al ginnasio: Italo Calvino, Cesare Pavese, Leonardo Sciascia, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini. Quattro di questi erano negli anni Settanta in piena attività, e si potevano seguire anche i loro interventi sui giornali del tempo. Allora, le voci degli scrittori erano importanti nel dibattito pubblico, e più autorevoli dei tanti che ora starnazzano sui social. Con Quintetto italiano (denominazione che mi è venuta solo ora per i miei scrittori preferiti del tempo) mi riferisco agli autori contemporanei. Poi c'era il Trio italiano dei classici contemporanei: Pirandello, Verga e Svevo. 
   Il Quintetto non esauriva gli italiani contemporanei ai cui libri mi rivolgevo, ma senza dubbio ne rappresentava allora l'avanguardia. Calvino dunque. Forse era uno dei primi che avevo conosciuto, almeno attraverso l'antologia scolastica (come d'altronde gli altri nomi). Luna e Gnac, racconto tratto da Marcovaldo (un libro del
1963), l'avevamo letto in classe, e doveva allora coinvolgermi in chiave ecologista la vicenda di Marcovaldo e dei suoi figli ai quali era concesso di vedere dalla loro terrazza il cielo e la luna per soli venti secondi nel lampeggiamento intermittente di un'insegna pubblicitaria: di Spaak-Cognac erano visibili solo le ultime quattro lettere. Il libro per intero lo lessi dal 2 al 7 febbraio 1974, a metà anno di distanza dai primi di Sciascia che avevo letto (Il giorno della civetta e Il mare colore del vino) e tra i due di Pavese (Lavorare stanca, divorato in un giorno solo il 1° gennaio 1974, seduto in una poltrona che è a due passi dal posto in cui sto scrivendo adesso, e La bella estate, al quale l'hanno scorso ho finalmente dedicato un saggetto d'insieme sulla trilogia). Ma Marcovaldo era una vecchia amicizia: nel 1970 avevo visto lo sceneggiato con
 Nanni Loy trasmesso in sei puntate su Rai 2. Scorci di ricordo in bianco e nero riemergono da quelle visioni, ma non so se attribuirle allo sceneggiato o alla lettura del libro: i figli di Marcovaldo che, dovendo fare un regalo per le festività natalizie a un bambino povero come raccomandato dal loro maestro, lo fanno al figlio del capufficio molto più benestante, perché, in una visita a casa su, l'hanno trovato triste. L'altro ricordo, questo sicuramente desunto dalla lettura, riguarda uno dei personaggi che dall'alto precipita su una spiaggia, sicuro di non bagnarsi perché il tratto di mare del lido è talmente affollato che non c'è rischio di cadere in acqua. Marcovaldo dunque non è dissociabile da Nanni Loy che lo interpretava, anche se dal 1970 a oggi non ho più visto lo sceneggiato, se non forse qualche frammento riproposto talvolta in tv (ma non ne sono sicuro). 

Nanni Loy nello sceneggiato Rai "Marcovaldo"
andato in onda nel 1970


Era quello dunque il primo impatto con il grado zero della scrittura di Calvino, una scrittura che rimane essenziale anche quando approda alle sperimentazioni degli anni Ottanta. E, paradossalmente, il successivo appuntamento con un libro di uno dei miei scrittori preferiti - che tuttavia seguivo come personaggio pubblico - doveva arrivare solo nel novembre-dicembre 1984 con Se una notte d'inverno un viaggiatore, uscito in realtà già nel 1979. Ma in occasione della pubblicazione di Palomar nel 1983, con l'amico Michele Ranieri avevamo acquistato uno a testa questi libri (io, Se una notte) per scambiarceli. Calvino era andato avvicinandosi all'OULIPO e un romanzo "telescopico" e combinatorio come Se una notte ne è espressione: giocato sull'invenzione di un libro rilegato male, per cui si susseguono, alternandosi, gruppi di pagine appartenenti a libri diversi, ripropone, nell'intenzione di Calvino stesso, la tecnica d'assemblaggio delle Mille e una notte. In fondo, la scrittura letteraria e il romanzo sono nati "sperimentali", se all'origine dello stesso romanzo borghese moderno ci sono il Don Chisciotte e il Tristram Shandy. 


Per un under 30 qual ero allora, per un giovane ventiseienne degli anni Ottanta che ancora respirava l'atmosfera della neoavanguardia, un "antiromanzo" come quello di Calvino (che andava avanti guardando indietro, se il modello erano le Mille e una notte) era certo lettura stimolante, come lo fu Palomar, letto, nonostante rientrasse nello scambio con Michele Ranieri, solo un anno dopo, tra il settembre e l'ottobre del 1985. Qui il connubio letteratura-scienza, proprio dell'OULIPO, e già sperimentato da Calvino nelle Cosmicomiche, la cui lettura avrei affrontato solo dopo, tornando a ritroso nella sua produzione, si ripresenta prepotentemente (nel decennio bergamasco deglianni Novanta al Teatro Dinizetti avrei visto una riduzione dalla Cosmicomiche, rappresentazione di cui purtroppo ricordo poco) .Un paginone di Le Monde degli anni Ottanta, dedicato alla (allora) nuova filosofia italiana, accanto ai libri dei filosofi "professionisti" come Vattimo e Cacciari, cita anche Palomar  e Il nome della rosa di Eco, romanzo che aveva appena cominciato la propria carriera di best-seller e long-seller: Eco, al quale si deve tra l'altro la traduzione e riscrittura degli Esercizi di stile di Queneau, tra i maggiori rappresentanti dell'OULIPO. I francesi, dopo aver dominato la scena filosofica europea e internazionale, s'inchinavano alla nuova filosofia italiana, lanciata "all'assalto di piccole verità" (come titolava più o meno l'articolo), tramontato il tempo delle grandi narrazioni nelle quali s'era impegnata ancora la modernità che ormai cedeva il posto alla postmodernità e al postmodernismo (categorie anche queste, letteralmente, del secolo scorso). 



   Paradossalmente, ci vogliono ancora alcuni anni perché io riprendessi - ormai scomparso lo scrittore - la lettura dei suoi libri, che man mano diventerà sistematica, inseguendolo nelle ristampe Garzanti e Oscar Mondadori. Ancora Einaudi è l'edizione de Le città invisibili, libro del 1973 (la cui struttura a sua volta può ricordare quella delle Mille e una notte) che leggo nel 1988, e le cui suggestioni sono alla base dei racconti del mio libro La linea dei passi, che vado scrivendo tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Novanta per pubblicarlo soltanto alla fine del 2019. L'osservazione che Kublai Khan fa, nel libro calviniano, a Marco Polo diventa mia nei lavori in corso del mio libro il cui sottotitolo è Prose sulle città e il viaggio e nel quale compare un pezzo che è una riscrittura di un collage di passi dal libro di Calvino: se a Marco Polo viene fatto notare che tutte le città che visita e di cui parla sembrano alla fine essere tutte simili a Venezia, a me viene fatto di notare - nel mio piccolo - che con i luoghi che visito, e di cui trasfigurandoli scrivo, torno in fondo a Genova, città in cui sono nato e che costituisce la mia origine geografica (anche se il sangue è campano), origine alla quale heideggerianamente (filosofo che ora amo molto meno di allora, eppure mi ci sono laureato) si vorrebbe tornare in quanto inizio che contiene in sé non ancora declinate tutte le possibilità.
Al 1991, tra febbraio e marzo, risale la lettura - di seguito - della trilogia I nostri antenati: Il visconte dimezzato (1952), terzo libro pubblicato da Calvino, Il barone rampante (1957) e Il visconte dimezzato (1959), acquisiti nella riedizione Garzanti Anche questi credo di averli letti in simultanea con l'amico Ranieri. Il barone rampante, insieme a Marcovaldo, ha avuto la sorte di diventare anche un best-seller per ragazzi e nelle scuole. In un raccordo temporale, leggendo e recensendo quest'anno un libro dedicato a Nico Orengo, un ligure trapiantato in Piemonte come Calvino, e come Calvino collaboratore di Einaudi, ho saputo dell'escursione fatta da Orengo e amici nei luoghi dell'ambientazione del Barone, nel Ponente ligure. Equindi, da poco, ho fatto ritorno per altre strade a Calvino e al suo mondo letterario e geografico.


                                               


 - Avevo iniziato a scrivere questo ricordo qualche mese fa, o il 15 ottobre per l'anniversario della nascita avvenuta nel 1923 a Santiago de las Vegas (l'Avana), a Cuba, o il 19 settembre, anniversario invece della morte avvenuta a Siena nel 1985. (Già, a distanza di poco, la memoria non recupera con precisione il ricordo). Allora volevo scrivere di altre cose, dell'impatto delle Lezioni americane, uscite nel 1988. O della sua esperienza come presidente di giuria nella 38a Mostra del Cinema di Venzezia, che aveva come direttore artistico Carlo Lizzani mentre Presidente della Biennale era lo storico napoletano Giuseppe Galasso, con il quale avevo dato tre esami di storia moderna e avevo concordato una tesi poi slittata (per la chiusura dell'Archivio di Stato napoletano in conseguenza del terremoto) verso la cattedra di storia della filosofia moderna e contemporanea. In quell'edizione della Mostra erano stati premiati Margarethe von Trotta con Anni di piombo (Leone d'oro) e Nanni Moretti con Sogni d'oro (Leone d'argento) e fuori concorso erano stati proiettati Da un paese lontano: Giovanni Paolo II di Krzysztof Zanussi Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino di Ulrich Edel (che anni, quegli anni!).  Vi accenno soltanto, e glisso sugli altri libri calviniani letti ancora successivamente.










 

sabato 3 ottobre 2020

Leonardo Sinisgalli: industria e letteratura

Commenti
Si legge sul “Corriere della sera” di stamattina, 24 aprile 2008, che è in uscita il volume L’anima meccanica. Le visite in fabbrica (1953-1957), curato da Giuseppe Lupo e Gianni Lacorazza per Avagliano editore di Cava de’ Tirreni, che raccoglie reportage scritti per la “La civiltà delle macchine” diretta dal poeta e matematico lucano Leonardo Sinisgalli e finanziato negli anni Cinquanta dalla Finmeccanica presieduta da Giuseppe Nuraghi: illuminato e ormai lontano esempio di interazione fa le due culture, quella letterario-umanistica e quella tecnico-scientifica. Vi collaboravano niente po’ po’ di meno che artisti, scrittori, intellettuali come Giorgio Caproni, Domenico Cantatore, Geno Pampaloni, Franco Fortini, Domenico Rea, Mario Mafai, Carlo Emilio Gadda, Michele Prisco, Franco Gentilizi, Libero De Libero, Giovanni Arpino, Alfonso Gatto, Giovanni Comisso, Alfonso Gatto, Giovanni Arpino, Emilio Tadini, Emilio Villa, e scusate se è poco. Nel clima della modernità – e non in quello edonistico e dispersivo della postmodernità – da un lato l’industria esercitava un’attrazione fatale sugli uomini di cultura (vedi i romanzi di Ottieri e di Volponi, sempre in quegli anni, sul mondo delle fabbriche). Dall’altro, gli stessi industriali non dimenticavano la loro provenienza umanistica e, come Pirelli e Olivetti, diventavano mecenati e tenevano a fregiarsi di un umanistico fiore all’occhiello. Gillo Dorfles, che fu amico di Sinisgalli, ricorda – e lo leggiamo sempre sul “Corriere” ,  “che queste riviste aprivano dibattiti d’attualità, su temi come la politica, la filosofia, il design, l’architettura, la scienza – e aggiunge: – I periodici aziendali di oggi sono vacui dal punto di vista culturale, pubblicitari o informativi” quali sono diventate. Sinisgalli riusciva a coniugare la trasfigurazione mitica della sua Lucania rurale con l’impegno di “tecnico” nel Nord industrializzato. Ora forse la tecnica, per dirla con Heidegger, ma anche con la Scuola di Francoforte, ha svelato appieno la propria essenza e assolutizzato la propria “ragion strumentale”. Idem il capitalismo, che non si preoccupa più di essere “temperato” e risvela il suo volto aggressivo. Non è più possibile allora una “civiltà delle macchine”. Dovremo rassegnarci alla loro più brutale “inciviltà”?

sabato 11 luglio 2020

Conrad a Napoli: "Il Conde"


Joseph Conrad, che ha girato il mondo, è  stato anche a Napoli. Alla città  partenopea ha dedicato un breve ma intenso racconto (Edizioni Dante & Descartes, Napoli 2019), nel quale dà conto di luci e ombre di questa contraddittoria metropoli del Sud. Il racconto muove da un incontro nel museo archeologico tra un aristocratico mitteleuropeo, cittadino dell'impero austroungarico, e il narratore nei cui panni si cela lo stesso Conrad. Si tratta di una storia vera, il cui protagonista, il Conde, appunto (ovvero "conte", con una storpiatura della parola italiana che forse vuole rendere conto della pronuncia napoletana) è  in realtà polacco, come Conrad... 
Leggi il resto al link sottostante:

https://ibalzirossi.blogspot.com/2020/07/il-conde-la-napoli-di-conrad.html?m=1

sabato 13 ottobre 2018

John Donne, Nessun uomo è un'isola

Il ritratto di John Donne riprodotto è quello eseguito da Isaac Oliver




No man is an Iland,
intire of it selfe;
every man is a peece of the Continent,
a part of the maine;
if a Clod bee washed away by the Sea,
Europe is the lesse,
as well as if a Promontorie were,
as well as if a Mannor of thy friends
or of thine owne were;
any mans death diminishes me,
because I am involved in Mankinde;
And therefore never send to know
for whom the bell tolls;
It tolls for thee.


John Donne, "Devotions upon Emergent Occasions" (1623)


Nessun uomo è un'isola, intero per se stesso;
Ogni uomo è un pezzo del continente,
parte della terra intera; e se una sola zolla vien portata via
dall'onda del mare, qualcosa all'Europa viene a mancare,
come se un promontorio fosse stato al suo posto,
o la casa di un uomo, di un amico o la tua stessa casa.
Ogni morte di uomo mi diminuisce perché
io son parte vivente del genere umano.
E così non mandare
mai a chiedere per chi suona la campana:
essa suona per te.

[trad. it. da internet]

venerdì 12 ottobre 2018




Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 - Milano, 12 settembre 191)







Di Salvo/Zagarrio, Tavola rotonda,
 La Nuova Italia, III ristampa 1972
L'incontro con Eugenio Montale risale almeno agli anni delle medie, anche se non mi soccorre nessun ricordo diretto, a differenza degli altri due poeti della triade novecentesca, delle "tre corone" del Novecento: di Ungaretti ricordo le letture cavernose che precedevano la messa in onda delle puntate "epiche" (è il caso di dire) dello sceneggiato televisivo di Franco Rossi dedicato all'Odissea; di Quasimodo invece ho ben presente lo studio a memoria, alle elementari, di Milano 1943 (con quella mano che inutilmente scava tra le macerie), e la notizia della sua morte data in un telegiornale del tempo (e poi negli anni Duemila sono stato a un  Convegno ad Amalfi, dove si ricordava il malore fatale avuto proprio nella cittadina della costiera). 
   Il primo ricordo che ho di Montale risale invece ad una mattina del giugno del 1974, quando, agli sgoccioli sudati della scuola, lo leggemmo in classe con i pochi compagni superstiti (gli altri avevano deciso che le vacanze erano già iniziate). Da lettore di antologie scolastiche erano andato già compulsando tutto quello che nei libri di testo si poteva trovare, lasciandomi accompagnare dalle brevi introduzioni e facendomi aiutare dalle note in calce: le antologie letterarie del ginnasio, come quelle delle medie, erano onnicomprensive e comprendevano testi più antichi e più recenti, italiani e stranieri. La nostra s'intitolava Tavola rotonda, e lì erano avvenuti probabilmente i miei primi incontri con il poeta di Genova. A meno che non mi ci fossi già imbattuto in antologie delle medie, ma, appunto, non ne ho più memoria. 
dall'indice di Tavola rotonda
Che Montale fosse di Genova, e legato alla Liguria, benché poi passato a Milano, lo rendeva più vicino a me, pure nato sotto la Lanterna, per poi tornare nella terra dei miei, sotto il Vesuvio. E soltanto negli anni Novanta dovevo passare, in macchina con un amico che ci ospitava nel capoluogo ligure,  sotto la sua casa a Corso Dogali.
La casa di Montale a Corso Dogali, Genova

   Ma torniamo alle letture montaliane. La prima immersione intera in un suo libro è avvenuta al tempo del secondo liceo classico - ovvero al quarto anno delle superiori, anno scolastico 1975-76: ed è curioso come certe date, tramandatesi da un'età all'altra della nostra vita, siano ancora lì nel ricordo, a far da sentinella a certi momenti, a presidiarli, affinché tempi e luoghi della nostra epica personale non vadano smarriti. Eccomi allora leggere Ossi di seppia (una copia presa in prestito in biblioteca comunale), centellinando un testo alla volta, letto ad alta voce andando avanti e indietro nella stanza, intorno a quella scrivania dal ripiano verde, acquistata col padre proprio nel cuore di una Genova anni Sessanta. Leggevo e rileggevo ad alta voce, masticando le parole a volte aspre di Montale, con quelle loro giunture particolari, senza far caso allora al "correlativo oggettivo"  se non per come, pur non "battezzato", suonava al mio orecchio mentre la mia bocca si riempiva di mare, limoni, ciottoli ecc (e anche di consonanze che non sapevo si chiamassero così:"abbaglia/meraviglia"/travaglio/muraglia/bottiglia"). 

   Le imparavo a memoria, le poesie, anche se solo una parzialmente sarebbe dovuta sopravvivere al naufragio stesso della memoria: "Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale / siccome i ciottoli che tu volvi...". Proprio questa mi sarebbe toccato dire, a due voci, con Maria Luisa Spaziani  - sì, proprio lei, la "volpe" di Montale - mentre un giorno negli anni Zero del Duemila l'accompagnavo alla stazione di Napoli dove l'aspettava il treno per Roma.
   Ma torniamo a quella trepida lettura nella mia stanza, al mondo che mi si spalancava nella stanza, ai richiami di un mare, quello ligure, mediterraneo, e ai confronti che spontaneamente sorgevano al liceale tra Montale e Leopardi. Riscontri che poi dovevo ritrovare pari pari in qualche critico più avveduto di quanto fossi io allora (e di quanto sia ancor'oggi io). Degli echi che sorsero allora, voglio e posso ora ricordate solo un "parallelo" tra il montaliano muro irto di cocci e la siepe leopardiana. Facile gioco, ma vera scoperta a quell'età.  
Maria Luisa Spaziani e Eugenio Montale
   Quella partecipata e intensa lettura - e le conversazioni con i compagni e amici di lettura di allora - furono propedeutiche alla attribuzione del Nobel a Montale, proprio a lui, nel 1975. Orgoglio "italico" e orgoglio personale per averlo già scoperto e amato s'intrecciavano e mescolavano tra loro.
   Non credo vivessimo il Nobel a Montale come risarcimento per quello dato anni prima, e contestato,  a  Quasimodo, perché anche quello ci pareva meritato. 
   Però per anni Montale ci doveva sembrare il più grande - fermo restando l'amore per Quasimodo e Ungaretti, e Pavese, e per altri nomi che andavano aggiungendosi al di là delle "tre corone". Così, mi sembrò cosa preziosa regalare a un amico per un compleanno la prima edizione nei Millenni Einaudi, del 1980, de  L'opera in versi che raccoglieva tutto Montale. Invidioso, di lì a poco procuravo a me stesso la seconda edizione di quell'elegante volumone, credo il primo Millennio acquistato per la mia biblioteca. Al quale s'è aggiunto anche il Meridiano con tutte le poesie, e gli altri con la narrativa e gli articoli. 
    Il mio  Montale.  Ma il ricordo delle prime letture non sarebbe completo senza la rievocazione de Il pipistrello, che apre la terza parte di Farfalla di Dinard, una raccolta di narrativa di Montale del 1854. Ma ai tempi scovato in qualche antologia, ovviamente.
   Ed eccolo ora, quel pipistrello svolazzare in questa stanza, che si affaccia sulla stessa veduta di allora. Ma non apro la finestra per scacciarlo, e lo tengo qui, con i ricordi. E con Montale.
 



lunedì 24 settembre 2018

L'Austria sovranista "riscrive" nei libri scolastici il Risorgimento italiano


In pratica la destra nazionalista austriaca, che non vuole immigrati, e quindi minoranze, ed è nemica della globalizzazione (ovviamente, da destra, in chiave sovranista), accusa il risorgimento italiano di essere stato nazionalista contro lo stato cosmopolita austriaco trattando da minoranza gli austriaci occupanti. Si dimentica che al tempo il nazionalismo era quello dei popoli che cercavano l'autodeterminazione contro gli invasori stranieri (che non erano gli immigrati, ma Stati in armi). Certi nazionalismi ottocenteschi erano altra cosa rispetto ai nazionalismi fascisti novecenteschi e ai sovranismi (idem fascisti) odierni. Con la scusa di voler fare uno stato italiano i patrioti risorgimentali volevano in realtà - questa la ricostruzione - dissolvere l'Impero multinazionale austroungarico. Gli occupanti da oppressori diventano vittime. E gli oppressori sono Cavour e (sic) Mazzini. Va be' che ora in Italia va di moda, da Nord a Sud, l'odio contro Mazzini e Garibaldi. Ecco gli austriaci buoni alleati in quest'odio dunque transnazionale! Le critiche, pure legittime, alle modalità del processo unitario italiano (vedi Gramsci) assumono una coloritura delirante! Ma tant'è. Questo "va" oggi...
Da un punto di vista storico, poi, molte pagine del Risorgimento devono ovviamente ancora essere analizzate. Come in tutti i processi storici avranno agito diversi elementi. Gli idealisti che volevano semplicemente una "patria" per tutti gli italiani. Chi come Mazzini - ma chi lo ricorda? - univa a una questione patriottica anche una questione sociale a favore delle classi più povere. Chi vedeva l'occasione per promuovere un'espansione territoriale: i Savoia. Ma ridurre tutto il Risorgimento - e anche le motivazioni di Mazzini, Garibaldi, Pisacane - alla conquista regia sabauda è possibile? Ed è storiograficamente corretto? Condannare tutto il Risorgimento per le modalità con le quali è avvenuta l'unificazione è giusto? Coinvolgere lo stesso Cavour nel giudizio negativo per la costruzione di un Paese alla quale (costruzione) non ha potuto partecipare perché morto presto è parimenti corretto? 
Imputare la decadenza del Meridione solo al "sacco" operato dai Piemontesi senza coinvolgere nel giudizio le stesse classi dirigenti meridionali complici è possibile?