Dal
Rinascimento alla Controriforma che ha separato l'Italia dalla vita universale.
E poi fascismo, craxismo e berlusconismo
di Enzo Rega - 17/12/2012 -
12:23 in saperincampania.it (poi in "L'Indice dei libri")
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A ispirare questo libro di Ermanno Rea, La
fabbrica dell’obbedienza. Il lato oscuro e complice degli italiani (Feltrinelli,
2011, pp. 219, €16,00) – nato dalle successive rielaborazioni del testo letto
nell’estate 2009 al Middlebury College, tra i boschi e le brughiere del
lontano Vermont – è il filosofo napoletano Bertrando Spaventa con il suo Rinascimento
Riforma Controriforma del 1928.
Ma è
proprio in pieno Rinascimento che va rintracciato l’altro nume tutelare di
questo gustoso e invelenito pamphlet: l’eretico Giordano Bruno, autore del
“più eroico ‘no’ mai pronunciato”.
Non a caso
Rea – che lascia il romanzo-saggio per un vero saggio (anche
se mette le mani avanti proclamando di non essere né storico né saggista) –
si abbandona, delineando il “carattere degli italiani”, a una feroce
invettiva contro la Chiesa cattolica, responsabile di un’indole che dispone all’obbedienza
passiva. Se non per scatti di ribellione come in Bruno, la cui figura viene
recuperata anche per il significato di “modello” per liberi pensatori.
Il Nolano
incarna così l’uomo nuovo rinascimentale, il ribelle
sperimentatore in ogni campo caro a Eugenio Garin.
Ma con il
rogo di Bruno s’è combusto tutto il Rinascimento, la cui eredità passa alla
filosofia tedesca da Kant a Hegel. Che è quanto sostiene Bertrando Spaventa,
che trova un preciso avvio per il declino della penisola: la Controriforma.
“Spaventa
è perentorio: – scrive Rea – da quel momento l’Italia è costretta a vivere
‘come separata’ dalla vita universale”.
E il
cittadino responsabile diventa un suddito deresponsabilizzato.
La
Controriforma appare “come motore di una vera e propria mutazione
antropologica”.
Riprendere
lo “spirito hegeliano”, e svelarne la matrice italico-rinascimentale,
significa allora per Spaventa riprendere anche il filo della nostra migliore
tradizione filosofica. Ma forse oggi, sembra dire Rea, è troppo tardi e anche
di quello stesso spirito hegeliano resta poco: “Abbiamo tutti (no, non tutti,
ma tanti, troppi) sposato la Controriforma; ci siamo fatti Chiesa noi stessi;
i nostri peccati ce li assolviamo da soli, evitando di recarci perfino al
confessionale. Come tanti Provenzano, le nostre case pullulano di santini e
di refurtiva”.
Un lungo
percorso storico che attraversa fascismo, craxismo e berlusconismo. Gobetti
sentiva in Italia ancora un bisogno di protestantesimo (bisogno che in
letteratura, nota Rea, emergeva nel 1921 in Rubè di
Borgese), per avviare finalmente alla libertà, alla serietà morale e a
un’educazione moderna. La risposta fu la repressione clerico-fascista.
Sarà Malaparte a dire come il fascismo volesse
ridestare la Controriforma con un rigore e uno spirito dogmatico che hanno
un’impronta meridionale e orientale che è nell’essenza stessa della civiltà
latina. Malaparte finisce così per adattare alle sue esigenze idee di
Leopardi, contrapponendo “lo spirito critico, di natura occidentale e
nordica” a “quello dogmatico di natura orientale e meridionale”.
Non sembra poi che Mussolini si sia mai lamentato
d’essere stato infilato nelle vesti d’un principe della Chiesa!
“Identica comunque la missione da parte di entrambi
(fascismo e Controriforma): imporre attraverso la violenza il pensiero unico,
cioè la mordacchia al dissenso”. Se con Mussolini s’instaura un regime, di
norma “la Chiesa non chiede formalmente alla politica di uccidere la
democrazia. Chiede di limitarla nei suoi impulsi autocorrettivi; di porre un
freno al dissenso, alla dialettica, al cambiamento”.
E siamo così alla perpetuazione dello spirito
controriformista fino al secondo dopoguerra, a prima e seconda repubblica. E
in quello snodo tra prima e seconda nell’accoppiata Craxi-Berlusconi.
A partire dagli “infami anni ottanta”. Rea
sottolinea qualcosa che molti dimenticano: i giudici non si sono accaniti
contro il premier di Arcore quando questi è sceso in
politica; piuttosto il contrario, Berlusconi scende in politica perché già assediato
dai problemi giudiziari. Lo “scontro” con la magistratura risale alle origini
dell’impresa berlusconiana, a quel 1984, quando i pretori di Torino, Roma e
Pescara fanno disattivare gli impianti per impedire le trasmissioni sul
territorio nazionale.
Fininvest si preparava così a unificare nel
berlusconismo quel Paese troppo lungo di cui parla Giorgio
Ruffolo in un libro, le cui idee in qualche misura riprende Rea che, certo
non sospetto di simpatie filo o neoborboniche, considera provocatoriamente,
alla stregua di Martone nel bel film Noi credevamo, una “iattura”
l’unità d’Italia, non in sé, ma per come è stata realizzata, tutta a
svantaggio del Sud: che è quanto già Gramsci sosteneva sottolineando, con
toni che sembrerebbero liberisti, l’incapacità della borghesia industriale
settentrionale post-unitaria.
L’amarezza con cui Rea addita (in uno dei periodi
più bui della storia d’Italia, tanto da “vergognarsi di essere italiano”)
mancanza di dignità, conformismo e servilismo nei confronti del potente di
turno, investe anche il suo campo, la letteratura, nella quale si levano
poche voci di dissenso.
E anche questo è Controriforma.
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